domenica 18 dicembre 2011

Alla compagna di viaggio, i cui occhi, fascinoso paesaggio, fan sembrar più breve il cammino

Vorrà dire che non sceglierò. Senza la melliflua banalità della non scelta come scelta, di quel punto zero che mi sta alle costole o proprio sul capo. Spada di Damocle mortifera.
Vorrà dire che aspetterò. Aspetterò il tempo,invece di rincorrerlo.
Aspetterò Mariangela.
Poi aspetterò Zoe.
E tutte e tre fumeremo una saporita sigaretta.
Quattro chiacchiere e tre amiche al bar.
Vorrà dire che sarò il mio nome e che il mio nome sarà me.
Vorrà dire che non attenderò più con ansia l’invenzione del secolo, di cui si vocifera da secoli. E, se mai dovesse comparire davvero la macchina del tempo, deciderò di non salire. Deciderò di non correre in soccorso di quella biondina tanto dolce e sperduta, sempre pronta a lasciarsi cogliere alla sprovvista dal flusso degli eventi e dal corso del destino. Serbo nel cuore tutti i sogni del mondo, come mi ha insegnato il buon Fernando. Li custodisco con feroce devozione. Li cullo e li rassicuro, come vorrei far talvolta con le uova della carbonara. “Non vi preoccupate, sto solo per mangiarvi”. “State tranquilli, sto solo per scegliere uno nella moltitudine e lasciare gli altri sfumare, in una procrastinazione mortale”. Raccolgo gli sguardi più puri e sto attenta a non calpestare i fiori.
Coinciderà, poi, la maturità, con una pulizia radicale del giardino, in sella a un possente tosaerba?
Amo gli aggettivi. Nulla di più inutile e grazioso. Magari al superlativo. Ovviamente,assoluto.
Attendo il profetico ritorno del principe Myskin.
“E ogni ritorno sarà una partenza e ogni partenza un ritorno – decretò il Dio della mia vita -. E tu, tu – aggiunse, l’indice puntato sul mio nasino -, tu sarai in ogni luogo. E in nessuno”.
Amen.

lunedì 12 dicembre 2011

"Lo leggo in me e nei segni che qualcosa sta cambiando, ma è un debole presagio che non mi dice come e quando"

Un sapiente gioco di luci illumina la mia anima e il ritmo fa chiaro e scava la mia tridimensionalità. Vorrei condividere l’emozione di una canzone di Guccini o di un brano di Simone de Beauvoir. Senza considerare la gioia di sciocche e banali scoperte della logica modale. O della finzione del nulla nella poesia di Mallarmé. Superare lo scarto incolmabile tra quel che si sente e quel che si riesce a dire. Perché il greco? Perché il latino? Perché la filosofia?
Perché non solo la matematica? Perché non solo l’ingegneria? Perché non solo la statistica?
Perché l’uomo.
Perché io.
Perché puntualmente, nei momenti bui, nel dolore e nello sconforto, mi trovo a rinascere. Gusto una parola. Soppeso una frase. Sguazzo nella lingua.
Mi aspergo di umanità.
E forse è una gioia ingenua. Naive. Infantile. Sciocchina.
Ma è tutto quello che mi permette di non abbattermi. O meglio di abbattermi e rialzarmi. Di radicarmi. Di lavorare.
Ho portato maglioni sformati a 20 anni. Ho sognato prepotentemente un amore come quello di Farewell. Ho lasciato la città più bella del mondo – e una vita con qualche garanzia in più – per un sogno. Sono stata catapultata in una calda fornace. Dall’oggi al domani, senza preavviso. Ho viaggiato, con disgusto e ripugnanza, nella Valle Caudina. Ho amato nelle viscere. E a ogni azione e a ogni passione, associo un libro.
Mirando sempre alla letteratura, ma non disdegnando neanche le etimologie da fabula nebulosa, come quella di “Desiderio”. Ciò che cade de-sidera. Vien giù dalle stelle. Me lo ha insegnato Vecchioni e la mia anima se ne è nutrita per mesi. Oggi, lo racconto quando voglio regalare qualcosa a qualcuno. Pirandello mi ha salvato nei lunghi viaggi in treno. Due ore nella puzza, per coprire una distanza di 60 chilometri, mentre un tirocinio in un giornale mi succhiava il sangue. De Roberto ha accompagnato la fine di un’amicizia in uno dei pochi treni di lusso che abbia mai preso nella vita. Tolstoj è comparso in molti dei miei sogni. “Viaggiavo nel treno sotto il quale si è buttata Anna Karenina. Ma non mi sono accorto di nulla”.
E Hemingway. E Kerouac. E Stendhal.
E … E … E … .
Il miracolo che il libro compie in me è meraviglioso. Pieno di mirum.
E mi ritrovo. Focalizzo finalmente l’attenzione sulla forza. Ricomincio, in un esistenzialismo anacronistico, a credere nell’uomo.
Al diavolo le mie insicurezze. Al diavolo le mie paure. Al diavolo rossore e balbettii.
Fanno parte di me. La lenta psicanalisi che conduco su di me da un’eternità mi ha permesso di mettere a fuoco il punto X. Mi guardo allo specchio con sincerità, dritto negli occhi. Consapevole di ogni flessione dell’interiorità, di ogni titubanza. Ho ben chiaro il perché di quel che dico e che faccio. Non mi spaventa il mio abisso.
D’altronde, amo gettarmi. Tuffarmi.
La mia vita è cambiata con un tuffo da uno scoglio, nel Mediterraneo pieno di Pantelleria.
In preda a turbamenti dovuti a vertigini, tentavo di tracciare una fenomenologia della paura, sulla scia della fenomenologia dell’amore di Saffo.
Una cretina che parla da sola – avrebbe detto chiunque, osservandomi da lontano. Una svitata.
Mi sono buttata.
Pura poesia di vita.
Se riesco a sfidare le vertigini e a tuffarmi da una decina di metri, posso tutto.
Perché aver paura proprio ora? Perché non mettercela tutta? Perché tirarsi indietro?
Perché cedere a una malinconica sindrome da vecchia infelice che non accetta la sfida?
Perché?
Io non sono Parigi. Sono la Roma del 410 d.C..
Come violata per la prima volta.
Ma non è la prima volta che arrivano i barbari nella mia vita.
Pronta ad affrontarli.
Il miracolo dell’arte che porta dal mio cuore gonfio al mio cervello fiacco la mia umanità viva.