domenica 11 marzo 2012

Mi porterò tutti i cavalli che hanno perso per un niente, e sempre primi nella mente.

http://www.youtube.com/watch?v=kwn27mxktnk
Sedo le mie turbolenze. Sono punto fermo nel caos. Fisico e figurato. Punto fermo.
E punto e a capo.
In un punto imprecisato dell’Universo, dio inforca un binocolo, come una signora distinta inforca il suo monocolo da teatro in madreperla.  
È elegante, il monocolo.
Ma il binocolo del mio dio è di una potenza sconfinata.
Onni-potente, probabilmente. Il tipo che impersona dio lo afferra. Mette a fuoco. È un po’ maldestro, ma alla fine riesce nell’impresa.
Lo punta.
Direzione Terra.
Direzione emisfero settentrionale.
Direzione Europa.
Occidentale.
Direzione Francia.
Direzione Parigi.
D123, 48, bd. Jourdan.

Sono sempre Mariangela Zoe.
Non scrivo da un po’.
Da troppo.
Ho bisogno di scrivere, ma non arrivo a sgranchire la lingua. E neanche le dita.
Come al solito, flusso di coscienza e pensieri sconnessi.
Ho l’anima arruffata, stamattina.
Non solo l’anima, a dire il vero.
Anche i miei capelli non scherzano.
Per giunta, gli occhi sono neri. Eye-liner sciolto e impiastricciato.
Sono disfatta. Ed è tardi. E dovrei dare un senso a questa giornata.
E la tastiera del mio computer ticchetta da circa due ore. Sono io che scrivo e cancello. Io che urlo. Sempre io infuriata e pronta a uccidermi, perché il mio italiano zoppica. Troppi francesismi ammazzano la lingua. E l’italiano è così denso di sfumature che solo un sacrilego potrebbe decidere scientemente di non usare la parola giusta al momento giusto.
Prendo seriamente in considerazione l’ipotesi di scontare penitenze fisiche per il neo imperdonabile di una lingua contaminata.
Eppur, non riesco.
Non riesco a soffocare un impulso primordiale che parte dalla pancia, come tutti gli importanti istinti della mia vita.
Scrivo ogni giorno che il dio di cui sopra ha creato. Scrivo, per poi cancellare. E riscrivere il giorno dopo. Scrivo per terapia.
Maledetto albatros deriso e schernito.
Maledetti marinai.
Maledette ali.
Maledettissimo determinismo genetico – esperienziale che mi conduce a essere quel che sono e come sono e non altrimenti, in virtù della mia Storia.
Io credo nella libertà dell’uomo. Credo nella mia incondizionata apertura sulla vita. E credo nell’homo artifex. O forse voglio crederci.
Contrasto di colori e pienezza della contraddizione.
E non so se è meglio vivere che scrivere. So che scrivo perché forse non so vivere. Mi piacerebbe dare forma scritta a ogni turbamento di un cuore odiosamente sensibile. Ma purtroppo c’è uno scarto tra il pensiero e il linguaggio e cerco da una vita, fiaccola alla mano, una strategia per uscire dall’impasse.
Invano.
In fondo, sono sempre in cerca di una strada anche nel concreto del quotidiano.
Inutile dire che non sono ancora in grado di orientarmi a Parigi – io che ho dei problemi persino nella Valle Vitulanese!
Ma è un modo per appropriarmi della città: perdermi e trovarmi. Trovarmi e perdermi. Perdermi e trovarmi. Trovarmi e perdermi.
Ad infinitum.
Stanotte, sotto lo sguardo vigile di un amico, pedalavo per la città. Si chiama Velib ed è un mezzo di trasporto alternativo alla metro. Ai Parigini piace e molto.
Ai pigroni, un po' meno.
Io, sportiva per indole e vocazione, sono stata in bicicletta per un’ora e un quarto stanotte, rischiando di perdere qualche organo interno lungo il tragitto. Abbiamo fatto numerose soste per salvaguardare l’incolumità del mio cuore.
Ma per la prima volta Parigi mi è quasi sembrata materna. Benevola, comunque. La carezza che senti inaspettatamente nel cuore della notte e ti fa sorridere per la tenerezza.
Qualcuno che ti rimbocca le coperte, perché dormi sonni ben poco tranquilli. E di notte ti agiti. Ti sposti. Conversi amabilmente con gli interlocutori onirici. Puntualmente ti scopri e hai freddo. Per fortuna, arriva l’angelo e rimette le coperte al posto giusto. Va via in silenzio, come in silenzio è arrivato.
Quest’oggi, Parigi mi sta simpatica.
Lungo il tragitto stanotte ho sfoderato il mio – vasto- repertorio gucciniano. Salvo scoprire dopo una mezz’oretta che cantare riduceva le mie fumose capacità respiratorie. Questo polmone tra dieci secondi si autodistruggerà.
Dieci. Nove. Otto. Sette. Sei. Cinque. Quattro. Tre. Due. Uno.
Boom.
Esplodo di vita e vite.

Ps: perdonate il mio italiano, per parafrasare quello che scrivo in ogni mail destinata a interlocutori francesi.