mercoledì 16 maggio 2012

Memento

Suonava il piano. Su un balcone, a strapiombo sulla campagna. Dalla moderata altezza dell’unico palazzo di un piccolo paesino in collina.
Il grattacielo del villaggio.
Era un bambino. Era un ragazzo. Era un uomo. Era un vecchio.
Suonava come un folle. La furia si impossessava di lui. E le mani scorrevano veloci. Le dita sgambettavano nell’aria.
E Giovanni si sparava la musica endovena. I capelli ricci danzavano. Il corpo fremeva.
La struttura del palazzo vacillava.
Il cemento armato tremava.
Nei pomeriggi tersi di silenzio, di quelli con 40 gradi all’ombra, persino in un piccolo paesino di collina che non conosce il significato dell’afa fa caldo. Il caldo zittisce tutto.
L’impressione è che muovere un braccio corrisponda a una maratona.
Non vale la pena di spremere tanto il fisico.
Nei pomeriggi di caldo, bisogna star fermi. Immobili. Quasi morti.
Ci si deve nascondere.
Il Caldo non deve accorgersi di noi.
In quei pomeriggi caldi, Giovanni squarciava il silenzio.
Indiavolato, riempiva la valle col piano. E quel piano aveva il suono di un’anima che urla.
Si contorceva, l’anima di Giovanni. Vomitava il dolore.
Le lacrime diventavano musica.
L’emozione era agghiacciante.
Ricordo quei pomeriggi.
Ero sul balcone di fronte, a giocare con le Barbie. Una principessa vestita di tutto punto.
Alla prima nota, correvo da mamma.
‘Perché suona?’-chiedevo.
Perché bisogna sputar fuori le emozioni, viverle e lasciare che si esprimano. Per evitare che si impossessino di noi.
Per non correre il rischio di implodere.
Possono far male, le emozioni.
Ma noi – Giovanni e io- non abbiamo paura di niente.
Oggi Giovanni non c’è più. E quella bambina si affaccia alla vita adulta.
Eppure il ricordo di quella musica nei caldi pomeriggi d’estate scuote i vivi e i morti e ammonisce entrambi: si permetta all’emozione di scorrere.