martedì 31 dicembre 2013

Arrivederci, amore, ciao.



Dice arrivederci il guerriero che parte in missione. Si volta e ha il desiderio di correre da chi ha lasciato. Per un solo maledettissimo attimo ha voglia di rimangiarsi tutto. Di non partire. Di non combattere il nemico. Di non cercare principesse. Di non rischiare la vita.
Nello spazio di un attimo, percorre i dieci passi che lo separano dall’uscio caldo e riprende in mano la vita che per un pelo non ha lasciato. Al diavolo draghi e solitudini.
Arrivederci è esattamente quell’attimo, quello spazio di tempo che percorri con l’immaginazione.
Dice arrivederci chi torna indietro. Chi desidera tornare indietro.
Desidero tornare indietro ogni volta che lascio Torrecuso e, per un istante, mando al diavolo tutte le mie principesse, lascio tossire tutti i miei draghi e ricordo solo da dove vengo, perdendo di vista dove vado e il mio stesso andare.
Banalmente, ho inaugurato questo blog nel segno dell’arrivederci. Nel nome di quella nostalgia che attanaglia Ulisse. Il mio dolore del ritorno.
È l’ora di smetterla. È l’ora di smettere di vivere nell’attimo dell’arrivederci anche quando quell’attimo è finito.
Adesso è il tempo della ragione. È il tempo delle scelte. È il tempo di lottare contro l’atavico fatalismo del Sud che mi porto addosso.
È il tempo di seguire il cuore, nonostante la paura.
È di nuovo il tempo di giocare al gioco della fiducia.
È il tempo di fare di necessità, virtù e indicare sul mappamondo i posti dove ti piacerebbe vivere, dato che in Italia al momento non puoi.
Quale giorno migliore dell’ultimo dell’anno per chiudere un blog che non parla più di me?
Quale giorno migliore per trovare in posti sconosciuti il coraggio che mai avrei pensato di avere e comprare un biglietto di sola andata?
Arrivederci, amore, ciao.

sabato 6 aprile 2013

Il mio re è nudo



Il re è nudo-mi raccontava papà, stesi sul lettone, la domenica mattina. Non ne avevo mai abbastanza delle sue storie e lo imploravo di continuare a raccontare. Raccontare. Raccontare.
In fondo, è un po’ il senso della mia vita.
Raccontare. Raccontare. Raccontare.
Per questo ho aperto un blog. Non finirò mai di ricordare a me stessa che io scrivo per terapia. Scrivo per stare bene. Scrivo perché ho bisogno di scaricarmi.
Raccontare. Raccontare. Raccontare.
Quante storie ho vissuto sulla mia pelle.
Recitavo poesie alle elementari e mamma mi suggeriva: ‘Sii espressiva’. Vivila sulla pelle. Ma a 8 anni purtroppo non si vive l’infinito di Leopardi. Ho provato a immaginare l’ermo colle di Torrecuso, ma non mi ha mai convinto più di tanto.
È uno dei pochi aspetti positivi della vecchiaia. O della maturità che avanza, per concedermi qualcosa. Perdo l’ingenuità che tanto mi contraddistingue. Perdo la freschezza che ancora oggi, a 24 anni suonati, mi farebbe credere al mio migliore amico che, puntando il dito al cielo, mi urla: “Guarda, un maiale che vola”. Ma acquisto in profondità. Recupero in consapevolezza e riesco a carpire la tridimensionalità, se non addirittura la pluri-pluridimensionalità, del mondo intorno.
Ma non voglio scrivere un post dal sapore della fine del Romanticismo tedesco, quando la novità non c’è più e non resta che un miele troppo zuccherino.
Oggi voglio scrivere di me. Senza discrezione. Vomitando nel web tutta la mia nausea.
Si dissiperà, nei meandri di Internet.
E allora il bene trionferà.
E tutti vivranno felici e contenti.
Oggi voglio scrivere di me e di un paradigma esistenziale in crisi.
E voglio pubblicare quello che scrivo di me, perché a qualcuno dovrò pur dirlo.
E allora tanto vale dirlo a tutti. Conosciuti e sconosciuti.
Sarà come non averlo detto a nessuno, in fondo.
Ma mi sentirò meglio.
Meglio, rispetto a sei mesi fa, quando qualcosa in me si è spezzato.
Cazzo cazzo cazzo.
Ed è importante sottolineare l’anafora elegante del cazzo.
Più o meno, è stato quando ho smesso di scrivere. Non solo di pubblicare post – in fondo, questo l’ho sempre fatto sporadicamente.
Ho smesso di scrivere per me. Ho smesso di raccontarmi storie e di battere con rabbia i tasti di questo computer.
Qualcosa si è spezzato e il delicato soffuso etereo equilibrio di un sentimento è andato in mille pezzi.
Sì, lo dico proprio così –come una donnina di Beautiful, una di quelle piccole sciocchine che sembra vivano solo per l’effimero (letteralmente, effimero, nelle storie di Beautiful) compagno.
Io non sono per l’accanimento terapeutico. Io non sono per infliggere a chi amo una morte lenta e dolorosa. Io sono per l’eutanasia e per la donazione degli organi. Ho sempre avuto le idee chiare in proposito.
Peccato che capovolgere le idee nella realtà sia un’ardua impresa e peccato che non si scherzi con i sentimenti. Va bene, okay. Lo ammetto. Il mio cuore è molto più tosto del mio cervello.
Francamente, me ne faccio una colpa. Ne farei una colpa a chiunque. Ma il problema è ben più grave!
Non si tratta soltanto di tre anni della mia vita e della bambina che in me è così attiva e così ingenuamente idealista.
La questione è di principio.
Il problema è il paradigma da adottare d’ora in poi. Perché è giusto soffrire, è sano soffrire, ma una lezione deve uscir da tutto. Anche dalla mediocrità. Ma alla domanda cui prodest io voglio, io devo rispondere.
Ho sempre creduto nell’homo artifex destini sui. Litigavo al liceo con la mia amica, perché ero fermamente convinta che chiunque avrebbe potuto cambiare il corso della propria vita.
Intravedevo il miracolo dell’uomo, in un’estasi misticamente adolescenziale.
L’uomo è una macchina portentosa, dotata di uno spirito. L’uomo può tutto. Se volessi, domani potrei essere a Rio de Janeiro o iscritta a matematica. Tutto in direzione della felicità. Per questo, bambina quattordicenne, ho sempre sognato un principe che mi dicesse: “Prendiamo il primo autobus che passa e vediamo dove andiamo”. E mostriamoci capaci di maneggiare il destino e di indirizzare la materia nella direzione che scegliamo.
Il fattuale, il materiale, per l’appunto, non è una limitazione della libertà dell’uomo. Anzi. È un utensile che bisogna imparare a usare. Riesce addirittura a potenziare la libertà. Solo l’uomo può.
Solo l’uomo è questo miracolo. Il miracolo della spirito che poi è il miracolo della libertà.
È il padrone di se stesso.
Io sono padrona di me stessa.
E se voglio lasciare Medicina e iscrivermi a Filosofia perché sono matta, perché sono cretina, perché sono un’idealista, io lo faccio e basta. E cazzo.
Poi però con la maturità è subentrata la saggezza dell’esperienza e ho scoperto quello che mi urlava la mia amica del liceo, nelle nostre litigate furibonde. L’uomo non è solo libertà.
Non è vero. Non ci credo.
Non ci voglio credere.
Non è giusto.
E allora cosa sarebbe l’uomo?
Il prodotto della combinazione di patrimonio genetico, condizioni ambientali e una percentuale di casualità, come mi insegna il buon vecchio Peirce?
E allora, io? L’illusione che avevo di poter davvero cambiare la mia vita, che fine fa? Il fatto che la abbia davvero cambiata e a un certo punto abbia fatto retromarcia, sgommando abbandonando un’autostrada per una strada provinciale del profondo Sud, come lo consideriamo? E allora se davvero non sono che il risultato di tre variabili, anche questa mia profonda fiducia nella libertà lo è?
A un certo punto, qualcosa si spezza. A un certo punto, l’ingranaggio si inceppa e questo positivismo esistenziale trova il suo contro esempio. Purtroppo però l’amore non capisce neanche la logica classica aristotelica, a due valori di verità. L'amore continua per la sua strada, orgoglioso e cattivo, come solo l’amore può essere. Continua, continua, continua. È implacabile, l’amore. È ottuso, l’amore. È un po’ scemo, se proprio la devo dir tutta.
L’amore capisce solo il dolore. Solo le ossa rotte. Solo la tristezza che scende in fondo al cuore.
Solo alla sofferenza l’amore non sa trovare una risposta. E solo lì si ferma. Masochisticamente, la vive tutta, fino in fondo. E arriva il giorno in cui si guarda allo specchio e si passa una mano sul viso. Lenta. Segue il contorno labbra, passa il dito sul nasino e tiepidamente osserva l’implacabile condanna. È scarna, la mano che ripete i gesti automatici di tutti i romanzetti rosa della Via Lattea. È scarnita. È stata prosciugata. Il re è nudo.
E finalmente decido di vedere. La violenza di questi ultimi mesi mi ha strappato le solite, appetitose fette di prosciutto che ho sugli occhi. E ha messo in crisi un paradigma esistenziale.
Purtroppo però una idealista resta una idealista. Può tacere per mesi, trasformarsi nella donnina di Beautiful, rinunciare per un po’ all’idea che impregna la sua vita. E, così, sentirsi espropriata, della sua vita. Ma un’idea resta un’idea.
E io, cazzo, voglio ritornare a essere perdutamente innamorata del mio meraviglioso homo artifex.
Il mio re è nudo e finalmente riesco a vederlo.
Non ne ho più paura.

domenica 10 marzo 2013

La mano di tarocchi che non sai mai giocare, che non sai mai giocare.



Il mio lettino è virtuale e il mio interlocutore immaginario. Forse sarà per questo che mi pone le domande giuste, a bruciapelo e come se non dicesse niente di che.
Forse è per questo che mi ha costretto a scrivere. Male. Qualunque cosa transiti nella zucca vuota che ho sulle spalle. È lì con una verga, pronto a battermi se mi fermo. E urla come una scimmia africana appesa a testa in giù a una liana.
Contro tutto e tutti.
Al diavolo ogni scadenza. Al diavolo le consegne. Al diavolo le persone. Scrivi – urla il life coach che c’è in me.
Scrivi e fottitene.
Scrivi e vivi.
Scrivi e cerca di capire.
Sviscera il vuoto che hai in testa. È un vuoto posticcio e lo sai. Sembra una di quelle trappole ingenue che costruivi da bimba. Una piccola buca nella sabbia, nascosta da una foglia o da un mucchietto di ramoscelli.
Chissà poi chi volevi intrappolare. Il sorite è un ragionamento fallace conosciuto sin dall’antichità e che sembra godere della proprietà del vago in logica.
Si prenda un pugno di sale e lo si spinga in un angolo, così da formare indiscutibilmente un mucchietto.
Si tolga un granello di sale. Nel nostro angolino c’è ancora un mucchietto di sale? Certo. Non basta prender un granello per eliminare il mucchio.
E ancora un altro granello.
E ancora un altro.
E ancora un altro.
E poi cento.
E poi duecento.
E poi mille.
Dopo aver ripetuto tale operazione un congruo numero di volte, esiste ancora il mio mucchietto in quell’angolino?
Quando comincia il ‘mucchio’ e finisce il ‘non-mucchio’?
Quando finisce un progetto e comincia una sega mentale?
Mi spiego, nel caso remoto in cui non si comprenda l’impellenza di quest’ultima, così educata e formale, questione.
Si sostituisca al mucchietto un uomo, uno qualunque e non ci s’interroghi più su cosa sia un mucchio e su quanti granelli lo compongano e su quanto sia vago il concetto di mucchio. Sono megalomane e non voglio più giocare a levar granelli, ma ad aggiungere progetti e prospettive. Il mio problema non è ‘mucchio o non-mucchio’, ma ‘mondo o galassia’.
Data, pertanto, una persona, proiettatala nel futuro intimamente esaminatene aspettative e piani a breve, medio e lungo termine che le appartengono, dobbiam formulare un’altra domanda.
Beninteso, sappiamo bene che ci son tante possibilità e che, in modo direttamente proporzionale alla tendenza al sogno, chiunque ne percorre un numero congruo. Almeno con la fantasia. Debole e pallida scoperta. Ma allora quando l’ennesimo piano B non è più un’alternativa, ma si trasforma in un fattore superfluo che complessifica la situazione, senza apportare niente di positivo?
Fino a quando possiamo parlare di progettualità, senza che si trasformi in pippa mentale controproducente, svolgente funzione di anti-presente o di a-presente?
Talvolta i miei piani m’impediscono di vivere alla giornata. E persino di esser felice.
Certo, i miei piani e il mio tentativo di previsione sono quello che mi distingue dalla scimmia della stanza di sopra.
Ma, dio, quanto vorrei essere, talvolta, quella scimmia.
Il terapista schizofrenico nella mia testa si è placato. Si accontenta di poco, in fondo. Sul suo bloc-notes ha scritto, con grafia elegante:
“10 Marzo 2013, la paziente dimostra difficoltà a conciliarsi con un futuro incerto. Fatica ad accettare di non sapere dove sarà nel medio-lungo temine. E di non sapere neanche chi voglia davvero diventare.
È torturata dall’annosa questione dello statuto della filosofia e del ruolo del filosofo e divisa in due tra l’apparato formale della filosofia analitica e l’ineffabilità dei continentali.
Nonostante un quadro globale pericolante, si può tuttavia sperare in lenti, impercettibili e significativi miglioramenti. Ha almeno, infatti, deciso di ricominciare a scrivere”.