domenica 18 dicembre 2011

Alla compagna di viaggio, i cui occhi, fascinoso paesaggio, fan sembrar più breve il cammino

Vorrà dire che non sceglierò. Senza la melliflua banalità della non scelta come scelta, di quel punto zero che mi sta alle costole o proprio sul capo. Spada di Damocle mortifera.
Vorrà dire che aspetterò. Aspetterò il tempo,invece di rincorrerlo.
Aspetterò Mariangela.
Poi aspetterò Zoe.
E tutte e tre fumeremo una saporita sigaretta.
Quattro chiacchiere e tre amiche al bar.
Vorrà dire che sarò il mio nome e che il mio nome sarà me.
Vorrà dire che non attenderò più con ansia l’invenzione del secolo, di cui si vocifera da secoli. E, se mai dovesse comparire davvero la macchina del tempo, deciderò di non salire. Deciderò di non correre in soccorso di quella biondina tanto dolce e sperduta, sempre pronta a lasciarsi cogliere alla sprovvista dal flusso degli eventi e dal corso del destino. Serbo nel cuore tutti i sogni del mondo, come mi ha insegnato il buon Fernando. Li custodisco con feroce devozione. Li cullo e li rassicuro, come vorrei far talvolta con le uova della carbonara. “Non vi preoccupate, sto solo per mangiarvi”. “State tranquilli, sto solo per scegliere uno nella moltitudine e lasciare gli altri sfumare, in una procrastinazione mortale”. Raccolgo gli sguardi più puri e sto attenta a non calpestare i fiori.
Coinciderà, poi, la maturità, con una pulizia radicale del giardino, in sella a un possente tosaerba?
Amo gli aggettivi. Nulla di più inutile e grazioso. Magari al superlativo. Ovviamente,assoluto.
Attendo il profetico ritorno del principe Myskin.
“E ogni ritorno sarà una partenza e ogni partenza un ritorno – decretò il Dio della mia vita -. E tu, tu – aggiunse, l’indice puntato sul mio nasino -, tu sarai in ogni luogo. E in nessuno”.
Amen.

lunedì 12 dicembre 2011

"Lo leggo in me e nei segni che qualcosa sta cambiando, ma è un debole presagio che non mi dice come e quando"

Un sapiente gioco di luci illumina la mia anima e il ritmo fa chiaro e scava la mia tridimensionalità. Vorrei condividere l’emozione di una canzone di Guccini o di un brano di Simone de Beauvoir. Senza considerare la gioia di sciocche e banali scoperte della logica modale. O della finzione del nulla nella poesia di Mallarmé. Superare lo scarto incolmabile tra quel che si sente e quel che si riesce a dire. Perché il greco? Perché il latino? Perché la filosofia?
Perché non solo la matematica? Perché non solo l’ingegneria? Perché non solo la statistica?
Perché l’uomo.
Perché io.
Perché puntualmente, nei momenti bui, nel dolore e nello sconforto, mi trovo a rinascere. Gusto una parola. Soppeso una frase. Sguazzo nella lingua.
Mi aspergo di umanità.
E forse è una gioia ingenua. Naive. Infantile. Sciocchina.
Ma è tutto quello che mi permette di non abbattermi. O meglio di abbattermi e rialzarmi. Di radicarmi. Di lavorare.
Ho portato maglioni sformati a 20 anni. Ho sognato prepotentemente un amore come quello di Farewell. Ho lasciato la città più bella del mondo – e una vita con qualche garanzia in più – per un sogno. Sono stata catapultata in una calda fornace. Dall’oggi al domani, senza preavviso. Ho viaggiato, con disgusto e ripugnanza, nella Valle Caudina. Ho amato nelle viscere. E a ogni azione e a ogni passione, associo un libro.
Mirando sempre alla letteratura, ma non disdegnando neanche le etimologie da fabula nebulosa, come quella di “Desiderio”. Ciò che cade de-sidera. Vien giù dalle stelle. Me lo ha insegnato Vecchioni e la mia anima se ne è nutrita per mesi. Oggi, lo racconto quando voglio regalare qualcosa a qualcuno. Pirandello mi ha salvato nei lunghi viaggi in treno. Due ore nella puzza, per coprire una distanza di 60 chilometri, mentre un tirocinio in un giornale mi succhiava il sangue. De Roberto ha accompagnato la fine di un’amicizia in uno dei pochi treni di lusso che abbia mai preso nella vita. Tolstoj è comparso in molti dei miei sogni. “Viaggiavo nel treno sotto il quale si è buttata Anna Karenina. Ma non mi sono accorto di nulla”.
E Hemingway. E Kerouac. E Stendhal.
E … E … E … .
Il miracolo che il libro compie in me è meraviglioso. Pieno di mirum.
E mi ritrovo. Focalizzo finalmente l’attenzione sulla forza. Ricomincio, in un esistenzialismo anacronistico, a credere nell’uomo.
Al diavolo le mie insicurezze. Al diavolo le mie paure. Al diavolo rossore e balbettii.
Fanno parte di me. La lenta psicanalisi che conduco su di me da un’eternità mi ha permesso di mettere a fuoco il punto X. Mi guardo allo specchio con sincerità, dritto negli occhi. Consapevole di ogni flessione dell’interiorità, di ogni titubanza. Ho ben chiaro il perché di quel che dico e che faccio. Non mi spaventa il mio abisso.
D’altronde, amo gettarmi. Tuffarmi.
La mia vita è cambiata con un tuffo da uno scoglio, nel Mediterraneo pieno di Pantelleria.
In preda a turbamenti dovuti a vertigini, tentavo di tracciare una fenomenologia della paura, sulla scia della fenomenologia dell’amore di Saffo.
Una cretina che parla da sola – avrebbe detto chiunque, osservandomi da lontano. Una svitata.
Mi sono buttata.
Pura poesia di vita.
Se riesco a sfidare le vertigini e a tuffarmi da una decina di metri, posso tutto.
Perché aver paura proprio ora? Perché non mettercela tutta? Perché tirarsi indietro?
Perché cedere a una malinconica sindrome da vecchia infelice che non accetta la sfida?
Perché?
Io non sono Parigi. Sono la Roma del 410 d.C..
Come violata per la prima volta.
Ma non è la prima volta che arrivano i barbari nella mia vita.
Pronta ad affrontarli.
Il miracolo dell’arte che porta dal mio cuore gonfio al mio cervello fiacco la mia umanità viva.

domenica 27 novembre 2011

Tra una scatola di tonno e un cammello, questa notte passerà

Mi strucco lentamente. Brevemente, oserei dire.
Come scrivo. Scrivo di rado, in fondo. Come di rado mi strucco.
E come altrettanto di rado mi trucco.
A volte ho l’impressione che la mia faccia mi faccia sembrare stupida. Madre natura non può dispensare troppi doni a un solo individuo: deve provvedere a una moltitudine.
Per cui, di solito, gli occhi chiari e i capelli biondi si accompagnano a un cervello non particolarmente lesto. Un’intelligenza che non afferra al volo i concetti.
È un pensiero che mi turba da quando ho iniziato a prendere coscienza di me stessa. E non parlo dell’amica con cui chiacchieravo allo specchio quando avevo tre anni. Si chiamava Giulia.
Non posso avere gli occhi verdi ed essere intelligente – ipotizzavo.
Devo avere gli occhi verdi ed essere un po’ lenta. È la legge della vita.
Poi, è arrivato il berlusconismo. Ma, per fortuna, avevo già detto a me stessa che se qualcuno mi avesse posto di fronte a una roulette russa, in cui, anziché vita o morte, la posta in gioco fosse stata occhi verdi o cervello, io avrei scelto il cervello. Silvio mi ha semplicemente ben radicato nella mia scelta di vita, insomma.
Eppure, qualche danno c’è stato.
Truccarmi, oggi, mi fa sentire una velina. Anche se si tratta solo di una riga nera – e storta, oserei dire – sugli occhi.
Sono reduce dalla notte di rue d’Ulm, l’evento dell’anno della Normale.
E allo specchio, prima di uscire, mi sono guardata dopo tanto tempo. Mi sono scoperta. E truccata. Di solito, mi lancio un’occhiatina, giusto per verificare di essere in ordine. Stasera, mi son proprio guardata.
Non penso sia neanche troppo giusto dimenticare di essere un corpo e di avere delle fattezze. E non è troppo equilibrato neanche lo slogan: “cambierei il colore dei miei occhi, in nome del cervello”.  
Mens sana in corpore sano vitae prodest. Alla vita, nel suo pieno essere.
Per questo, ho cominciato a cucinare. Di tanto in tanto, giusto per impedire al mio corpo di perdere l’abitudine di mangiare davvero.
Senza considerare le lavatrici e una vita – strana – che gira in un verso tutto suo – strano.
Ma mi sono sempre considerata – strana.
Per cui, tutto è normale.
E io posso tutto: sono una cellula totipotente, come mi ripeteva qualcuno, tanto tempo fa, in un’altra vita. Ho addirittura aperto una scatoletta di tonno senza linguetta con un coltello, oggi pomeriggio. Completamente sprovvista di qualsivoglia tipo di companatico da accompagnare alla mia baguette, anziché uscire e far la spesa, ho affrontato la suddetta scatoletta. L’ho acquistata un mese fa, salvo poi rendermi conto che senza apriscatole non si sarebbe mai aperta. Da allora, troneggiava nella mia libreria, cittadella fiera della sua inespugnabilità.
Ma oggi mi sfidava con un’aria più boriosa del solito. E io avevo più fame del solito.
Ho brandito il coltello e, con molta fatica e tanti colpi secchi, forato la latta e mangiato il tonno al naturale - orribile.
Un trionfo.
Per la cronaca, l’arabo al quale solo ieri ho dedicato un post zuccheroso e romantico, il povero Odisseo d’Arabia vittima di solitudine è un parto della mia fervida fantasia.
Lo incontro perché, ogni volta che esco dalla mia stanza, esce anche lui dalla sua.
Vive solo a due porte di distanza, quindi sente il rumore.
Ieri sera, sono saltata quando l’ho incrociato in bagno. A braccia conserte sulla soglia.
Ho mormorato un Pardon frettoloso e impastato e son scappata.
Varrò cinque o dieci cammelli?
Purtroppo, sono bionda.

venerdì 25 novembre 2011

Prendete e bevetene tutti

http://www.youtube.com/watch?v=kDwVPQIp334

Insolito tappo azzurro con fiocco. Etichetta verdarancio. Bottiglia in plastica riciclata.
Stap. Glug.
Inizia a scorrere un liquore denso. Odoroso. Scuro. Un rhum aspro, da accompagnare a puro fondente 99%.
Il liquido si spande. Si allarga in pozzanghera. L’aroma è forte. Non lo si dovrebbe aspirare troppo in profondità. Può nuocere alla salute, danneggiare il cervello, forare i polmoni.
Ma ormai è fatta.
La mia anima si è stappata e io non riesco ad astenermi dallo scrivere. Anche se non scrivo di nulla in particolare. Sebbene il banale soggetto di un post rosa pallido su sfondo fucsia sia solo io. Se aveste la possibilità di vedermi, ve ne rendereste conto senza proferir parola. Capireste che sono in un periodo di sbandamento mentale e intuireste che tento di gestire le emozioni al meglio. Brandisco la mia ragione come un domatore di leoni brandisce la sedia al circo. Però poi finisce male e i leoni lo sbranano.
Soccombo di fronte ai miei pensieri. Mi confonde la lingua, mi confondono le persone. Troppo penso, perché troppo ho da dirmi. E risulto formale persino con me stessa.
Odiosamente manierata.
E tutto questo non dovrei scriverlo, se voi poteste vedermi.
Però.
Però sono a chilometri di distanza. Però torno tra un mese. Però ho un mucchio di eventi da immortalare, di storie da raccontare e non posso aspettare ancora.
No, altrimenti muoio.
Se fossi un barbone, sarei come lui.
Immaginiamo che si chiami Petr, sia russo e alcolizzato.
Immaginiamo che viva nei pressi di rue d’Ulm. Precisamente, nello spazio antistante l’Ecole Normale Superieure farlocca. Non la NormaleSup, rifugio e alcova dei coccolati – e infelici – migliori cervelli di Francia.
Petr vive sotto le colonne della Scuola Superiore delle Arti. Accanto alla chiesa maronita. Ha trovato una grata confortevole, da cui escono sbuffi di aria calda. Un bel posto, in fondo. Alle otto, la sera, quando rientro a casa, lo trovo sempre lì. Comodamente sdraiato sui suoi cartoni isolanti.
Cuscino sotto la testa. Maxi-plaid avvolgente. Petr legge il giornale.
A Parigi, il gelo non è ancora arrivato davvero. Splende spesso il sole. Un sole freddo, ma rassicurante.
Temo l’abbassamento di temperatura fulmineo di cui parla il meteo. Temo di svegliarmi un giorno e trovare la neve.
Temo per Petr.
Chi si accorgerebbe che non c’è più? Chi potrebbe dare l’allarme, se non fosse al suo posto, intorno alle 20.00, a leggere il giornale?
Come ci si accorge che un barbone è scomparso?
Non so neanche quale sia il suo vero nome.
La mia unica certezza è che politicamente sia un moderato. La sua lettura preferita è Le monde.
E la tua, qual è?
Ti sintonizzi su Al Jazeera tutti i giorni?
Ti ho visto, sai. Ti ho letto dentro.
All’inizio non ho pensato molto a te. Ci siamo incontrati stamattina. O forse ieri, non ricordo. La clessidra del tempo qui ha un modo di scorrere tutto suo. Ogni granello cade nell’eternità e nel buio. Ma noi ci siamo visti.
Ci incontriamo in bagno. O nei dintorni. La prima volta son scappata.
Non perché avessi gli occhi gonfi del sonno. Sono scappata perché, diciamocelo, è imbarazzante incontrarsi in bagno. Sebbene fossi andata solo per controllare la lavatrice, non è propriamente piacevole.
Sei nella stanza 119, credo. Due porte più in là della mia.
Anche la seconda volta son fuggita a gambe levate. Non so bene perché. Forse perché gli arabi sono colpiti dalle bionde e io volevo evitare di esser paragonata a dieci cammelli.
Eppure, l’incontro di un attimo mi è bastato per afferrarti. Gli occhi castani divisi da una patata che funge da naso hanno parlato.
Dici solo Bonjour. Forse non parli un gran francese.
O forse lo studi da quindici anni e puoi sfoggiare un eloquio fluente.
Forse sei iracheno.
O piuttosto iraniano.
Senza alcun dubbio, timido.
O meglio, impaurito e spaurito.
Il verbo saisir, in francese, ha molteplici sfaccettature e una vasta gamma di utilizzi. In linea di massima, significa afferrare, cogliere al volo. Ecco, penso di aver afferrato il tuo stato d’animo, caro sconosciuto. Caro – tenero – coinquilino.
Ti senti solo. Ti hanno appena catapultato in un mondo che non è il tuo. In una lingua che non è la tua. In una camera che non è la tua.
La tappezzeria damascata del miniappartamento ad Abu Dhabi, gentile concessione di tuo padre, impallidirebbe di fronte ai muri bisognosi di una mano di pittura della stanza di Jourdan.
La tua lingua madre è l’arabo e i tuoi amici, di norma, sbeffeggiano queste sciocche lingue neolatine che richiedono soggetto-predicato e complemento. Questi poveretti che scrivono da sinistra verso destra.
Quanto ti senti solo.
I tuoi occhi castano scuro sono pozzi di solitudine. Di malinconia lancinante. Strugge l’anima, la malinconia. Sei un Odisseo che soffre il dolore del ritorno. Non riesci ad addormentarti, spesso.
E non è colpa del fuso orario. Parli su Skype a notte fonda. Il materasso è così scomodo.
Tu così solo.
Qualcuno ti ha giocato un brutto tiro. Ha materializzato radici che non pensavi di avere. Sì, proprio tu, sognatore a occhi aperti. Proprio tu che speravi di andar via il prima possibile, di lasciare quel Paese orribile. Proprio tu che immaginavi, a bocca aperta, l’Europa. Il vecchio continente. Parigi.
Quel qualcuno brutalmente ha messo a nudo le tue radici. E le ha tranciate di netto.
Ecco perché ora ti sembra di avere dei cordoni di carne viva spezzati nello stomaco.
Stai tranquillo. Si cicatrizzerà tutto. Starai meglio.
Abbi fede: guarirai. Ricorda l’algos del nostos di Odisseo e perdonami, se non riesco a trovare i caratteri greci.
La magia della sovrastruttura umana è che si costruisce un piano dopo l’altro. Ma nessuno ci assicura che il nostro edificio sia antisismico.
Una povera europea che vive a due porte di distanza dalla tua, ti pensa, caro Odisseo.
Per ora mi limito a scriverti la poesia di Kavafis che ho letto nei tuoi occhi.
Ma non preoccuparti: domani ti cercherò.
Ti tenderò un agguato in bagno!
E ti chiederò come stai.

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà` questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
ne' nell'irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l'anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d'estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia -
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d'ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca -
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos'altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già` tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

Kostantin Kavafis


domenica 13 novembre 2011

Caro Silvio, ti scrivo

Caro Silvio Berlusconi,
ti scrivo da Parigi, ma non ti porto le congratulazioni di Sarkozy per le tue recenti, sopravvenute, dimissioni. Non sto qui a raccontarti, come avrei fatto se tu fossi ancora Presidente del Consiglio del mio Paese, le barzellette che circolano su di noi in Europa. Le volgarità delle tue notti e la povertà intellettuale del tuo operato politico. Non sto qui a dirti che, forse, con altri al timone sarebbe stato diverso persino il mio futuro. Il mio piccolo misero futuro. Non preciso che non solo non ti ho votato, ma che non lo avrei fatto neanche se mi avessero costretto.
Mi limito alla mera constatazione di fatto: hai segnato almeno – e le mie speranze di longevità sono elevate – un quarto della mia vita.
Nel 1993 avevo solo cinque anni. Eri il mio sogno proibito: quando il tuo volto era trasmesso in tv, papà mi permetteva di alzare il dito medio contro di te. L’unico uomo col quale io abbia mai potuto permettermi di essere scortese e rozzamente maleducata. Lo schermo era grande, la dimensione della profondità accentuata: nessuno aveva ancora messo in giro l’ultrapiatto. Mio padre più giovane. Tu, sempre lo stesso.
Solo qualche capello in più.
Mi vanto sprezzantemente di essere antiberlusconiana da quando ho dieci anni circa. È un modo di vivere, l’antiberlusconismo. Mia madre mi ha spiegato chi fosse il nostro Presidente all’età di dodici anni. L’aneddoto che preferivo era la storia del tuo stalliere, membro o/e connivente con la malavita organizzata. Divulgavo il verbo in classe. Raccontavo ai compagni. Facevo informazione. Ero solo alle medie.
Restavo di sasso, se e quando scoprivo che una persona simpatica, gradevole ed educata si schierava dalla tua parte. Immediatamente, scattava una diminutio umana tranciante.
Ricordo bene il libro che hai inviato nelle case degli italiani. Un progetto ambizioso per il Paese. Un volume azzurro, pieno di foto. Povero di parole. Sintomo e avvisaglia del futuro: non avresti mai potuto cambiare davvero l’Italia, come predicavi. Lo staff che regge e costruisce il tuo personaggio non dà abbastanza importanza alle parole espressione di pensiero. Alla capacità che solo i pensieri hanno di rivoluzionare il mondo.
E qui il materialismo storico fa un triplo salto mortale avvitato. E precipita su di me. Per eliminarmi dalla circolazione.
Comunque, al tempo del libro azzurro che evitavo persino di sfiorare, per il timore di contaminazioni, ero al liceo. Classico.
Sul giornale di istituto, scrivevo articoli infiammati, nella pagina di politica interna. Una indignados sedicenne, diciassettenne, diciottenne.
Ho sfilato a Roma, il 14 dicembre 2010. Ero nel lungo corteo che ha trasformato l’Urbe in un campo minato. Ho sperato, quel giorno. Ho sperato che alla Camera non ti dessero la fiducia. Sognavo – e sogno, un mio vizio di origine ineliminabile -, un mondo migliore. Un’Italia diversa.
A Roma, quel giorno, ho avuto anche paura. Sono scappata dalla polizia che minacciava di caricare i manifestanti. E di randellare anche me. Eppure io non avevo caschi, né mazze. Men che meno passamontagna. Se mi avessi visto, avresti detto che avevo un volto carino.
Inutile precisare che ho seguito le tue imprese sessuali. Letto quotidiani nazionali divenuti, all’improvviso, riviste pornografiche. Basta un processo al Premier per trasformare la Repubblica in Novella 2000. Ho compianto Noemi, Ruby e tutte le altre.
Ma non ti scrivo, stanotte, per rimproverarti. All’alba della Terza Repubblica, con un Paese in frantumi e delle speranze da ricostruire, mi sembrerebbe molto italiano capovolgere bile e problemi su di te. Mandare il capro nel deserto per espiare. Molto berlusconiano, in fondo, come atteggiamento. Da vigliacchi.
Mi hai strappato un sorriso, in fondo, quando hai deciso di chiedere la fiducia sul Rendiconto. Non potevi crederci. Non volevi credere di avere perso la maggioranza. Dovevi sbattere la testa nel muro. Tutti i deputati che avevi comprato si erano rivenduti. Il sistema malato di clientele, tangenti, gioielli, case e incarichi non poteva ritorcertisi contro. Lo avevi inventato tu. Eppure, il figlio può divenire più forte del padre. Frankestein docet.
Ricorda: chi ha tradito una volta può farlo sempre, caro Silvio.
E la rete ammuffita di chi si è venduto e poi è passato al nemico, voltandoti le spalle, è il tuo capolavoro. La preziosa eredità che lasci dietro di te.
Saresti morto comunque. Quantomeno, con l’avanzare del tempo, la probabilità di scomparire aumenta, per la legge della vita. Ma il sistema non muore. Il re è morto. Viva il re. Il mistero dell’istituzione monarchica che si perpetua, nonostante i secoli. Intatta e illesa, mentre i re muoiono.
Ebbene, tu muori.
Ma la politica povera non muore.
L’Italia che non legge i giornali e vede il Grande Fratello non muore.
Oggi vitupera il cadavere di Mussolini. Domani sceglierà un nuovo dittatore.
Ma stanotte è la fine di un’era e posso decidere di non pensare alla classe politica malata, pasciuta e cresciuta dal berlusconismo.
Stanotte posso permettermi di sognare. Di sognarti. Sulle parole di Eluard.

“Sui quaderni di scolaro
Sui miei banchi e gli alberi
Sulla sabbia sulla neve
Scrivo il tuo nome

Su ogni pagina che ho letto
Su ogni pagina che è bianca
Sasso sangue carta o cenere
Scrivo il tuo nome

Sulla giungla ed il deserto
Sui nidi sulle ginestre
Sull'eco dell'infanzia
Scrivo il tuo nome

Sui miracoli notturni
Sul pan bianco dei miei giorni
Le stagioni fidanzate
Scrivo il tuo nome

Su tutti i miei lembi d'azzurro
Sullo stagno sole sfatto
E sul lago luna viva
Scrivo il tuo nome

Sulle piane e l'orizzonte
Sulle ali degli uccelli
e il mulino delle ombre
Scrivo il tuo nome

Sopra il lume che si accende
Sopra il lume che si spegne
Sulle mie case raccolte
Scrivo il tuo nome

Su ogni carne consentita
Sulla fronte dei miei amici
Sulla mano che si tende
Scrivo il tuo nome

Sul vigore ritornato
Sul pericolo svanito
Sull'immemore speranza
Scrivo il tuo nome

E in virtù d'una parola
Ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti

Libertà”.

All’Italia.

lunedì 7 novembre 2011

I tre fiammiferi di Prévert

La canzone del sole        Joe Dassin - Les Champs-Élysées


Digito un ritmo. Scrivo al suono di una canzone, nella speranza di ricrearla. Ballo col mio schermo a cristalli liquidi. È un pop di sola chitarra classica. La star è un uomo dal naso forte, di bianco vestito e ondeggiante, in un’emissione in bianco e nero. È La canzone del sole francese. La intonano gli adolescenti, durante le lunghe notti di Ferragosto. Sui suoi accordi, impara a suonare la chitarra l’autodidatta di turno. Si tratta d’amore, ovviamente. E siamo a metà degli anni Settanta circa. La trama non è delle più articolate. Ma la location è polvere di stelle e riveste d’incanto la nostra storia.
Un uomo passeggia. È domenica mattina. Ha voglia di dir qualcosa a chiunque. Si imbatte in una donna. Se ne innamora. Il giorno prima, due sconosciuti. Il mattino dopo, due amanti storditi dalla lunga notte. Lungo gli Champs Elisées.
C’è tutto quello che si può desiderare, sugli Champs Elysées, canta Joe Dessin.
E una ragazza afroamericana si muove a scatti. Ritmo nel sangue. Eleganza di movimenti brevi e puliti. Ha capelli tanto crespi da demoralizzare ogni piastra. Un vestitino verde bottiglia. Accompagna, con i suoi scatti educati, una cinese curata, dalla gonna rosa vertiginosamente corta. Due superpotenze affiatate, in una pista da ballo scatenata. Cantano e accarezzano con il corpo il sax di Joe Dessin. Un remix malriuscito, circa quarant’anni dopo.
Ma la location rende sempre tutto più magico. Aux Champs Elysées.
Allora, scopri di essere a Parigi, a ballare in uno scantinato, durante una serata poliglotta. Il miracolo interculturale delle metropoli europee condensato in una coppia di ragazzine che ballano insieme, sincronicamente, canticchiando all’unisono Aux Champs Elysées. La difficoltà di una conversazione multiculturale e la necessità di confessare, messa alle strette, di non avere la minima idea di dove sia l’isola di Mayotte, l’amata patria dell’interlocutore di turno. Salvo poi scoprire che si tratta di un isolotto minore e sacrificare dieci secondi del tuo prezioso tempo a GoogleMaps, in nome di una grave lacuna geografica. Senza considerare gli incontri ravvicinati del terzo tipo. Internazionali anche quelli. Arabi preda del fascino delle bionde a gogo. Francesi colpiti da gravi forme di disadattamento. Il tentativo di spiegare a un monodimensionale ingegnere francese, reduce da un Erasmus a Milano, perché sei bionda, il contrario del prototipo dell’italiana mediterranea e scura. La storia della dominazione normanna del Sud e di una certa Costanza d’Altavilla non lo convince. Continua a credere che io sia ucraina o russa. Al massimo, moldava. Quarantenni avvizzite e ubriache. Seminude. Vecchi tristi con scarpe da tip tap.
Sale al cuore un altro ritmo. La “r” gutturale rollata e sottolineata è la stessa di Piaf e Dessin. Si tratta sempre d’amore. Ma non canta piu’ il Lucio Battisti d’Oltralpe. Stavolta è il De Andrè francese. Jacques Brel e “I nomi di Parigi”. La Senna che passeggia e guida il mio cammino. Ed è sempre Parigi.
Un post tautologico, ispirato dalla legge di Scoto.
Se fascino e miseria, allora Parigi.

venerdì 4 novembre 2011

Parigi in pillole: il metrò

Muoversi a Parigi senza PassNavigo equivale a rinunciare all’arma in un duello. Se ne esce perdenti. Almeno sotto il profilo finanziario. In attesa del mio abbonamento per studenti – che tarda ad arrivare – mi sono bastati tre giorni di biglietti per inchinarmi di fronte al re dei trasporti e rientrare nella sua corte.
Il PassNavigo è una semplice card con fototessera personale, pratica e ricaricabile. Per le zone 1-2 di Parigi e per chi non usufruisce di ulteriori sconti, i forfait disponibili sono:
-          settimanale, dal lunedì alla domenica, 18.35 euro;
-          mensile, dal primo all’ultimo del mese, 62.00 euro;
-          annuale, dal primo all’ultimo dell’anno, 633 euro.
Il numero di corse effettuabili con il PassNavigo è illimitato, nel limite temporale del forfait. Ed è la chiave per instaurare una relazione stabile con la metropolitana.
Una corsa normale costa 1.70 euro e il biglietto non vale sul tram. Che disdetta.
Ho anche provato il carnet da 10 biglietti, alla modica cifra di 12.50 euro, ma la metropolitana sembra ingoiare ticket e il trasporto diventa oneroso persino sul piano psicologico: un carnet dura tuttalpiù due giorni.  
E allora … PassNavigo santo subito! Chiunque può chiederlo. Basta presentarsi allo sportello della metropolitana, muniti di fototessera e rifiutare la cosiddetta CarteVisite, croce e delizia dei turisti, puntualmente proposta e altrettanto puntualmente acquistata. Tale truffa, progettata ad hoc dai trasporti parigini, consiste nel proporre agli ignari stranieri una carta che permette un numero illimitato di corse, ma che ha la durata temporale di soli cinque giorni e costa 30 euro. Dieci in più rispetto al forfait settimanale del PassNavigo.
Senza considerare che, per lassi di tempo piu’ brevi – magari solo un WE nella Ville Lumière –, conviene approfittare del Mobilis, biglietto giornaliero che costa 6.30 euro. E il biglietto giornaliero, per chi ha meno di 26 anni, costa solo 3.50 euro, il sabato, la domenica e nei giorni festivi. L’offerta si chiama Ticket Jeune ed è esempio lampante di una politica – non solo quella inerente ai trasporti – volta a coccolare le nuove generazioni. Almeno nei WE.

martedì 1 novembre 2011

Perché diciamo no alla crema d’avocado.

Io e il mio alter ego, in una fredda stanza parigina, stiamo, per l’appunto, contemplando un vasetto verde pisello. Il barattolino in questione è basso e gentile. In un verde più carico, campeggia, con un elegante Arial 14, la scritta Guacamole.
Spaurito e abbandonato in uno dei primi scaffali che si presenta allo sguardo dell’acquirente – bieco emblema di strategie di marketing che ormai sono conosciute dal mondo intero – tal vasetto è stato recuperato proprio da una frequentatrice assidua di supermercati come me.
Ora è sulla scrivania, a ricordarmi che non tutte le schifezze alimentari della mia vita riescono col buco.
Qualche giorno fa, avevo già gustato uno squisito latte al lampone. L’idea di partenza era, in realtà, del latte alla fragola: ricordo di averlo bevuto, con immenso piacere, circa quindici anni orsono. Da allora, non l’ho più beccato in giro. Scoprirlo a Parigi ha acceso le mie speranze e destato la bambina che c’è in me. Il latte alla fragola era un valore aggiunto per la città, insomma. Paris – e stavolta lo dico all’americana, l’unico accento in francese che suoni più buffo del mio – aveva guadagnato punti.
Inutile dire che un errore di lingua mi ha fatto scambiare framboise (il lampone) con fraise (la fragola).
Inutile dilungarmi sul sapore del latte e sulla mia delusione. Mi sono sentita peggio di quando ho scoperto che Babbo Natale non esiste.
Ma nulla supera l’avocado. Per non uscir fuor di metafora, Babbo Natale è venuto a picchiarmi, infischiandosene non solo della mia veneranda età, ma persino del fatto che, in teoria, non avrebbe il diritto di esistere.
Se ciascuno di noi è quel che mangia, in questo momento, io sono un avocado. 

E io, resto o vado via?

Caro Roberto, mi dispiace. Ma laggiù la filosofia del call center ha distrutto ogni tensione alla progettualità. Nessuno ha il diritto di togliermi la speranza e il desiderio di costruire un futuro.
Nemmeno la mia patria.
Arrivederci, amore. Ciao.
Ciao Italia, amore mio. Ho voglia di raccontarti una storia.
Ti va di ascoltarla?
Ti va di confrontarti? Tu, Italia. Così bella. Selvaggiamente bella.
Regina delle celebrità, come cantavano gli 883, quando ero alle elementari. Eppure così lacerata.
Ti va di ascoltare?
… Non mi interessa, la tua risposta.
Io me ne frego e la racconto lo stesso, questa storia.
Ho capito che avrei dovuto lasciarti, quando sono stata costretta a scegliere tra Platone e Aristotele. Non potevo mettere entrambi in valigia. Non potevo sacrificare Kant.
Ed ecco materializzarsi nel cuore le mille immagini delle valigie di cartone, di due uomini pronti ad affrontare il gelo siberiano di Milano, di navi, enormi e ferrose, alla conquista dell’Atlantico.
Siamo un popolo di emigranti.
Emigrare è una sorte che tocca, nella storia, a tutti, prima o poi. Ma la frequenza con la quale è toccata in sorte a noi mi sconcerta.
Sono tra i cosiddetti nuovi emigranti. Non più valigie di cartone e cappotti pesanti, ma Easyjet, RyanAir, treni regionali e il terrore di sforare con i chili e pagare il sovrapprezzo.
Con dolore, con vergogna, con tormento, alla domanda dicotomica di Roberto Saviano devo rispondere: “Io non resto. Io vado via”.
Tenendo stretto nel cuore il sogno di tornare.

Sono il barbone che urla alla fermata Luxembourg della RER B. Grido. Il dolore mi consuma il fegato: troppo alcol puro, in 40 anni di vita.
Sono l’indifferenza di chi gli passa accanto, in silenzio. O magari ridendo.
Sono lo stridio della metro che cancella urla e sorrisi.
Sono il cielo terso di Parigi.
Io sono Parigi.
Benvenuti nella Ville Lumière.

Riversare una vita in un blog significa affidarla alle correnti di Internet.
Significa testarne l’efficacia.
È un tuffo nel mare liquido di Baumann. Io soffro di vertigini e le grandi altezze mi hanno sempre spaventato. Ma oggi sono andata al supermercato e ho resistito ben due ore, portando a termine una spesa razionale e, a tratti, addirittura, utile. Se sono stata capace di acquistare una scopa, scegliendola con oculatezza, posso far tutto nella vita. Anche sfidare, con arroganza prometeica, il cielo di Parigi.
E raccontare la mia, Parigi.
Ogni città è una donna e in questo momento ho a che fare con un osso duro.
Non è la materna Napoli che accoglie chicchessia nel ventre incandescente.
Non è la mia amata Roma imperatrice.
Non è neanche Londra, poliglotta manager in carriera.
Parigi è una donna sottile, nervosa. Autoritaria, non autorevole.
Vien voglia, talvolta, di sradicare la Torre Eiffel, per poi rimetterla al suo posto. Ma capovolta. La punta ancorata al terreno dello Champ de Mars e la base in aria, oscillante.
Una Torre di Pisa in ferro.
Solo allora, forse, i Parigini metterebbero le redini alla ὕβρις che li contraddistingue e si accosterebbero alla realtà sotto un’altra prospettiva.

I cugini d’Oltralpe
Qui il bislacco mondo della politica osa chiedersi cosa significhi essere francesi, oggi. Ne discutono aspramente i litterati della NormaleSup, i manager di SciencePo, i puristi dell’Accademia della Lingua, gli engagès del Cafè de Flore, persino gli ingegneri del Polytecnique. Quel matto di Sarkozy ha presentato domanda all’Unesco, perché il francese diventi Patrimonio dell’Umanità. Il francese, sì. Sebbene, tra le lingue neolatine, sia quella che ha più violato la consecutio temporum e pervertito il congiuntivo. Nonostante l’abisso tra la lingua parlata e la lingua scritta sia ogni giorno più spaventoso e, solo nei libri, davvero, solo nei libri, si incontri un passato remoto che è diventato anticaglia obsoleta. Mi sconvolgono: non conoscono il greco e pronunciano le parole latine con l’ultima sillaba accentata, perpetuando l’assassinio del povero Cicerone, ma vogliono ascrivere la lingua a Patrimonio dell’Umanità.
Mi interrogo su cosa significhi essere italiani, oggi.