lunedì 24 dicembre 2012

Ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade



Non resisto alla tentazione di scrivere oggi.
Di solito, mi impongo un rigoroso silenzio, se sono in un mood sdolcinato e zuccheroso. Ignominioso a tratti.
Una incallita romantica adolescente allo sbaraglio, al sicuro nel suo bel paesello, viziata da mamma e papà. Non più una straniera in terra ostile.
Mi sembra che, con questa predisposizione, persino le mie riflessioni, persino la vita di tutti i giorni si cadenzino regolate e immobili. Prive anche dello charme dell’humour e della nuvola di Fantozzi che mi perseguita per un peccato di nascita, il mio nome di battesimo.
Ebbene, son lenta quest’oggi.
Grondo aggettivi.
E spargo virgole.
Sono un elefante che trascina le zampe gonfie e piene di vene varicose nel caldo della savana.
Per passare dall’avvertimento del contrario al sentimento del contrario, basterebbe dare una mano di smalto rosso vermiglio alle mie unghie elefantiache e contemplare la mia silhouette così aggraziata nelle acque di una pozza naturale laggiù all’Equatore.
Mi pavoneggio come un elefante, in pigiama davanti alla tastiera, il pomeriggio della vigilia di Natale. A circondarmi, le istantanee della mia vita. Qui diventa facile incrociare occhi che sanno dirmi chi io sia stata e chi io sia. Oltreché quale strada io abbia percorso, finora.
Sono Gesù Bambino all’Hilton e ormai ho troppi Natali sulle spalle.
Perciò non riesco a frenare il romanticismo stantio e penso alla ragazza di Giorgio da ieri pomeriggio. Ormai non è solo un fait divers leggiucchiato su La Repubblica. È il tormentone del web scemo, la prova della digitalizzazione di Cupido. 

Giorgio a Milano, un mese fa, ha incontrato una ragazza e le ha chiesto informazioni. Sciarpa marrone e berretto, lei ha risposto con spirito e precisione.
Se hai ancora bisogno di me, fammi un fischio.
Poi ha voltato l’angolo ed è scomparsa con la sua bicicletta.
Giorgio non ha avuto neanche il tempo di realizzare di essersi innamorato di lei in due minuti di conversazione. E quindi non ha potuto rincorrerla, chiederle un appuntamento con un sorriso e dirle almeno un ‘Sei bella’. Era troppo tardi quando ha capito di esser stato vittima di un colpo di fulmine, proprio lui che trova così idioti quelli che ne parlano e che ne sostengono l’esistenza.
Il colpo di fulmine è un innamoramento leggero leggero che un qualche creatore intelligente di questo mondo ha ideato ad hoc per gli imbecilli.
Come si può esser attratti da sconosciuti?
Non sai se leggono, se mangiano bene e neanche se ridono di gusto. 
Oculi speculum animae. Stultorum – si è ripetuto ogni mattina allo specchio, nei giorni seguenti.
Eppure si svegliava con i suoi occhi in testa e si addormentava col suo sorriso e si svegliava con il colore della sua sciarpa e si addormentava con il campanello della sua bici e si svegliava con quelle gambe lunghe, rivestite dai jeans a sigaretta, così ritmiche nel pedalare. Sarà un’abitudinaria – si diceva. Una tipa che al mattino ripete sempre gli stessi gesti e sorseggia sempre nello stesso modo il suo caffelatte e si spruzza il deodorante esattamente sette volte esattamente ogni mattina esattamente nello stesso punto. All’esatto centro dell’incavo ascellare.
Un po' ossessiva, insomma.
E se fosse lei? L’anima gemella, la metà della mela, l’altro lato della medaglia?
E se fosse lei, la compagna della sua vita, la madre dei suoi figli, il bastone della sua vecchiaia?
E se fosse sua?
E se fossero già suoi quei lunghi capelli castani e quegli occhi e quel sorriso?
Non poteva vivere col dubbio. Nel dubbio di quel ‘E se…’.
Non poteva vivere senza sapere e lasciare sfumare quella domanda martello.
Per questo, Giorgio ha ascoltato la forza oscura che tenta di dominare ogni vita. Con risultati talvolta scadenti.
Per questo, Giorgio ha seguito il suo istinto.
E con il potere conferitogli dal Web, ha twittato.

Ora il popolo degli internauti cerca la ragazza di Giorgio.
Anche io la cerco, a modo mio. Con la mia risibile propensione per le storie a lieto fine e le principesse svegliate con un bacio dai principi. Nel nome del caldo artificiale di questi giorni e dei sentimenti umani che vedo sbocciare ovunque. Un caldo consumistico, eppur romantico, a modo suo.
Ritorno bambina e ti cerco, ragazza di Giorgio. Nel mare di Internet getto la mia bottiglia.
Rispondigli, per piacere e dimostragli che il colpo di fulmine esiste e che nella vita tutto è possibile per davvero.

A te che leggi, ragazza di Giorgio, auguro un buon Natale.

venerdì 7 dicembre 2012

Io mi sento Italiana e -per fortuna o purtroppo- lo sono.



Sono tranquilla nella mia bella biblioteca, nel quinto arrondissement, al centro di Parigi.
L’Italia è lontana anni luce. I socialisti guidano il Paese e sono davvero in un mondo diverso. Un Altro mondo, quasi. La politica qui funziona. Esistono gli aiuti anticrisi alle famiglie e, non appena si avverte il sentore di un provvedimento ingiusto, i francesi scendono nelle piazze e protestano.
Ammiro questa capacità e ammiro la macchina-stato, tanto ben oliata da garantire un Welfare ai suoi cittadini.
C’è solo un problema.
Mio dio.
Io non sono Francese. Io non parlo il francese. O meglio, lo parlo a modo mio. Riesco a interagire e a risolvere qualunque situazione. Non faccio più tanti errori, azzecco i congiuntivi e, in fondo, sto cominciando ad amare questa città.
Ma io non sono Francese.
Io sono Italiana.
Io sono un’Italiana che parla francese.
Io mi sento Italiana.
In Italia ho la mia famiglia, le mie radici, i miei affetti. La mia lingua, il mio modo di interagire. L’Italia è la mia patria, per dirla con un termine retrò. E, per carità, anche l’Europa è la mia patria e, nello spazio di Schengen, sono assolutamente a mio agio.
Ho 24 anni, il futuro dovrebbe essere mio, come il mondo, del resto.
Ho 24 anni e l’anno prossimo devo scegliere cosa fare della mia vita.
Ho 24 anni e sono sotto l’albero della Tamaro, incerta sulla strada da imboccare.
Il mio cuore dice che amo il mio paese.
Dice che sono pronta a fare la gavetta ovunque e in ogni luogo. A fare i caffè. A non esercitare la professione per la quale ho studiato.
E questa gavetta può durare anni, decenni.
Sono pronta a tutto.
Sono pronta a tutto, pur di tornare, in un giorno lontano di un futuro nebuloso.
Son pronta a stringere i denti. A sentire la mancanza come un marchio a fuoco sulla pelle. A parlare lingue non mie, io che amo così tanto le sfumature dell’italiano.
Non sono una scansafatiche e per questo, un anno fa, ho deciso di andar via.
Per costruirmi. Per gettare le basi della donna che vorrei diventare. Nella speranza, un giorno, di poter dare quello che ho ricevuto e che ricevo ogni giorno. Con il sogno di entrare in una classe e insegnare.
Io sono Italiana. E disperata.
Sono disperata.
Stanno distruggendo il mio Paese. Stanno distruggendo il mio futuro. Berlusconi ha deciso di impedirmi di tornare.
Qui regna il silenzio, tutti lavorano alacremente e se all’improvviso mi alzassi e iniziassi a piangere convulsamente certo resterebbero attoniti.
Grido di rabbia, perché mi stanno rubando il futuro.
Cosa significa il gesto irresponsabile di uno stronzo che decide di tornare in politica per tornaconto personale?
Significa che io, in Italia, non tornerò mai. Significa che devo riprogettare la mia vita. Significa che devo dire addio al mio Paese e al sogno di entrare in una classe e parlare l’italiano.
Siamo in tanti qui. Sono così tanti gli italiani nel mondo. Talmente tanti che sembra una diaspora. Alcuni si sono arresi e progettano il loro futuro altrove.
Io, no. Come un’idiota, pensavo potesse andar meglio.
Io, classe 1988, figlia del berlusconismo, delle veline-prostitute e delle leggi ad personam. Io che ho apprezzato e apprezzo Monti, perché è il primo politico serio. Io che, per abitudine culturale, apprezzerei qualunque politico che non dica barzellette in televisione e che non faccia le corna alla Merkel.
Berlusconi ha deciso di ridiscendere in campo. Ha deciso di distruggere il mio futuro.
Urlo, in questa biblioteca silenziosa. Ho il cuore a pezzi.
Berlusconi ha infranto il mio sogno di un’Italia diversa e di un paese in cui, dopo anni di gavetta, finalmente poter tornare.
Lo disprezzo. Disprezzo l’entourage di veline che osano dirsi amazzoni. Disprezzo i politichini di carta che lo circondano.
Non sono tra quelli che hanno sperato in un suo ritorno, ma tra quelli che si augurano una sua dipartita definitiva.
Ho 24 anni e avevo diritto all’Italia.

sabato 1 dicembre 2012

Oh, la mia bella estate.




A Ferragosto abbiamo fatto una gita fuori porta. In stile meridionale. Consapevolmente terrone, oserei dire. Due macchine scassate, ferraglia rumorosa a quattro ruote. La linea politica del rifiuto delle grandi distanze in giorni affollati, accompagnato da ristrettezze economiche e dal caro-benzina, ci hanno fatto optare per Sassinoro, a soli 30 chilometri dal mio paesello. In dialetto, c’è un’espressione idiomatica: “Sparagna e comparisci”. La proferiscono vecchiette meditabonde, dalle crocchie canute, dispensando caramelle dopo la Santa Messa della domenica.
Abbiamo risparmiato, certo, e la giornata in sé è stata indimenticabile.
Penso spesso a quel quindici di Agosto. Mi sembra quasi di sentire sulla pelle l’acqua fredda del ruscello e lo scrosciare che copre persino le risate. I nostri vent’anni e la sensazione di trovarsi nel pieno della vita, nel pieno delle forze, al limitare di una generazione.
Penso spesso a quel quindici di Agosto e a quella sicurezza tangibile che solo rapporti solidi sanno offrirti.
La campagna oggi è così. Proprio come quel giorno. È autunno e non ho il costume da bagno, perché i paesaggi che si succedono incalzanti sono molto più freddi. E questo pullman è così confortevole e caldo. Ma il sole illumina i colori dei vigneti ed esalta il profilo delle mie colline che digradano gentilmente. Il ballo di Arlecchino e di foglie rosse e gialle. Rami secchi e alberi ancora capelloni. Quanto è mia, questa campagna. Quanto mi sento al posto giusto al momento giusto. Quanto sono lunghe le mie radici. Ho letto il libro di Jack London a 13 anni ed ero troppo piccola. Troppo giovane, come noto con un sorriso d’indulgenza e la presunzione di un’età ancora molto lontana dalla maturità. Ne ricordo confusamente la trama e, in fondo, me n’è rimasto solo il titolo, solo l’immagine di albero antropomorfo che ricorre sovente nei cartoni animati. Il mio alluce è una radice, lunga e inviluppata. Grassa.
Il mio alluce è una di quelle radici che le guardi ed esclami: “E’ vita!”.
Vivono, le mie radici. Vivono in me. Vivono in ogni distanza percorsa, in ogni viaggio intrapreso. Cantano, le mie radici e mi seducono con il sapore dell’infanzia passata.
Che senso avrebbe mai una radice lunga lunga e un tronco piccolo piccolo, corto corto?
Ho voglia di accarezzare il cielo con la mia chioma gialla. Di ghermirlo con carezze suadenti.
Eppure gli alberi non camminano, né tantomeno prendono aerei. Non cambiano neanche il vaso, come le sorelle piante da casa. Forse è per questo che i viaggi mi sembran tutti scomodi.
Si prenda un albero di media altezza e lo si riponga sul sedile della Ryan Air.
Non può accavallare le radici e neanche poggiare la testa. Ovunque vada, ha bisogno di qualcuno che lo accarezzi e che si prenda cura di lui. È sempre difficile piantare radici in posti nuovi. Ci si deve abituare al terriccio dalle proprietà organolettiche diverse ogni volta. Puntualmente nuovi insetti che infastidiscono e strani animali che tentano di succhiarti il tronco. E poi il clima. L’incertezza di dover attendere giorni o settimane o mesi in attesa di acqua. E ogni volta rischi di essere sradicato. Ogni volta devi prender valigie di rami, riempirle di medicine contro i diserbanti e i pesticidi e, in punta di piedi, andar via. Ormai non si dice più neanche addio agli alberi incontrati lungo il cammino e che ci hanno fatto compagnia per un pezzo di vita.
Ormai, fintamente, si sussurra arrivederci, si promette di inviare cartoline e si guarda avanti.
Trasloco dopo trasloco, aereo dopo aereo, l’albero perde rami e sparge foglie ovunque. Regala pezzi di sé a chi ha amato e si abitua a non impiantarsi in nessun luogo.
A non allacciare rapporti e a titubare ogniqualvolta un nuovo albero lo accarezzi con un ramo. La paura di doverlo abbandonare lungo la strada è troppo grande.
Eppure, un albero che ha rinunciato a metter radici è un albero contro natura.

Ho scritto questo post durante un viaggio verso Roma Ciampino, di nuovo diretta a Parigi.
Ripenso all’immagine dell’albero che è stata usata e della quale si è abusato a lungo. A tal punto presente in letteratura da condizionare i riferimenti culturali della ragazzina che sono.
Ebbene, non mi sembra un’immagine che funziona.
O ogni uomo è albero ed è, pertanto, dotato di lunghe radici che affondano nel terriccio del passato e che del passato si nutrono e, dunque, noi viviamo di quello che è stato e cresciamo in direzione del cielo-futuro. E in tal caso siamo assolutamente immobili, da un punto di vista geografico, giacché nessuno ha mai visto alberi che vanno a spasso e, per definizione, l’albero si sviluppa in orizzontale. Non gira di certo il mondo.
O ogni uomo non è albero. Non ha lunghe radici, né tantomeno folta chioma. Non ricalca il miracolo delle architetture arboree e, in tal caso, potrà esser tutto: uccello, leone, serpente, pianta da casa. Ma non albero radicato, poiché le radici non si espiantano e si impiantano certo con gran facilità. Allora il passato si sovrapporrà al passato. L’una sull’altra, le immagini si accavalleranno e non resterà nessuna traccia materiale di quel che siamo stati in tempi lontani. Solo vaghi ricordi, nella maggior parte dei casi falsati, come insegnano recenti studi sulla memoria. Allora dovremo abbandonare il cliché continentale de “Il mio passato vive nel mio presente” e riadattarlo a “I miei ricordi vivono nella mia testa, quest’oggi”.
Se siamo alberi, il passato è testimoniato dalle nostre lunghe radici e materialmente nutre, giorno dopo giorno, il nostro presente.
Se non siamo alberi, il passato riecheggia nel nostro spirito, ma non ve ne è traccia, fuori di noi e noi siamo sempre così sconvolgentemente diversi, di giorno in giorno e così, sconvolgentemente, imprevedibili.
È una disgiunzione esclusiva e io, albero che ha rinunciato a metter radici, non esisto.