A Ferragosto abbiamo fatto una
gita fuori porta. In stile meridionale. Consapevolmente terrone, oserei dire. Due
macchine scassate, ferraglia rumorosa a quattro ruote. La linea politica del
rifiuto delle grandi distanze in giorni affollati, accompagnato da ristrettezze
economiche e dal caro-benzina, ci hanno fatto optare per Sassinoro, a soli 30
chilometri dal mio paesello. In dialetto, c’è un’espressione idiomatica:
“Sparagna e comparisci”. La proferiscono vecchiette meditabonde, dalle crocchie
canute, dispensando caramelle dopo la Santa Messa della domenica.
Abbiamo risparmiato, certo, e
la giornata in sé è stata indimenticabile.
Penso spesso a quel quindici di
Agosto. Mi sembra quasi di sentire sulla pelle l’acqua fredda del ruscello e lo
scrosciare che copre persino le risate. I nostri vent’anni e la sensazione di
trovarsi nel pieno della vita, nel pieno delle forze, al limitare di una
generazione.
Penso spesso a quel quindici di
Agosto e a quella sicurezza tangibile che solo rapporti solidi sanno offrirti.
La campagna oggi è così.
Proprio come quel giorno. È autunno e non ho il costume da bagno, perché i
paesaggi che si succedono incalzanti sono molto più freddi. E questo pullman è
così confortevole e caldo. Ma il sole illumina i colori dei vigneti ed esalta
il profilo delle mie colline che digradano gentilmente. Il ballo di Arlecchino
e di foglie rosse e gialle. Rami secchi e alberi ancora capelloni. Quanto è mia,
questa campagna. Quanto mi sento al posto giusto al momento giusto. Quanto sono
lunghe le mie radici. Ho letto il libro di Jack London a 13 anni ed ero troppo
piccola. Troppo giovane, come noto con un sorriso d’indulgenza e la presunzione
di un’età ancora molto lontana dalla maturità. Ne ricordo confusamente la trama
e, in fondo, me n’è rimasto solo il titolo, solo l’immagine di albero
antropomorfo che ricorre sovente nei cartoni animati. Il mio alluce è una
radice, lunga e inviluppata. Grassa.
Il mio alluce è una di quelle
radici che le guardi ed esclami: “E’ vita!”.
Vivono, le mie radici. Vivono
in me. Vivono in ogni distanza percorsa, in ogni viaggio intrapreso. Cantano,
le mie radici e mi seducono con il sapore dell’infanzia passata.
Che senso avrebbe mai una
radice lunga lunga e un tronco piccolo piccolo, corto corto?
Ho voglia di accarezzare il
cielo con la mia chioma gialla. Di ghermirlo con carezze suadenti.
Eppure gli alberi non camminano,
né tantomeno prendono aerei. Non cambiano neanche il vaso, come le sorelle
piante da casa. Forse è per questo che i viaggi mi sembran tutti scomodi.
Si prenda un albero di media
altezza e lo si riponga sul sedile della Ryan Air.
Non può accavallare le radici e
neanche poggiare la testa. Ovunque vada, ha bisogno di qualcuno che lo accarezzi
e che si prenda cura di lui. È sempre difficile piantare radici in posti nuovi.
Ci si deve abituare al terriccio dalle proprietà organolettiche diverse ogni
volta. Puntualmente nuovi insetti che infastidiscono e strani animali che
tentano di succhiarti il tronco. E poi il clima. L’incertezza di dover
attendere giorni o settimane o mesi in attesa di acqua. E ogni volta rischi di
essere sradicato. Ogni volta devi prender valigie di rami, riempirle di
medicine contro i diserbanti e i pesticidi e, in punta di piedi, andar via. Ormai
non si dice più neanche addio agli alberi incontrati lungo il cammino e che ci
hanno fatto compagnia per un pezzo di vita.
Ormai, fintamente, si sussurra
arrivederci, si promette di inviare cartoline e si guarda avanti.
Trasloco dopo trasloco, aereo
dopo aereo, l’albero perde rami e sparge foglie ovunque. Regala pezzi di sé a
chi ha amato e si abitua a non impiantarsi in nessun luogo.
A non allacciare rapporti e a
titubare ogniqualvolta un nuovo albero lo accarezzi con un ramo. La paura di
doverlo abbandonare lungo la strada è troppo grande.
Eppure, un albero che ha
rinunciato a metter radici è un albero contro natura.
Ho scritto questo post durante
un viaggio verso Roma Ciampino, di nuovo diretta a Parigi.
Ripenso all’immagine dell’albero
che è stata usata e della quale si è abusato a lungo. A tal punto presente in
letteratura da condizionare i riferimenti culturali della ragazzina che sono.
Ebbene, non mi sembra un’immagine
che funziona.
O ogni uomo è albero ed è,
pertanto, dotato di lunghe radici che affondano nel terriccio del passato e che
del passato si nutrono e, dunque, noi viviamo di quello che è stato e cresciamo
in direzione del cielo-futuro. E in tal caso siamo assolutamente immobili, da
un punto di vista geografico, giacché nessuno ha mai visto alberi che vanno a
spasso e, per definizione, l’albero si sviluppa in orizzontale. Non gira di
certo il mondo.
O ogni uomo non è albero. Non ha
lunghe radici, né tantomeno folta chioma. Non ricalca il miracolo delle
architetture arboree e, in tal caso, potrà esser tutto: uccello, leone,
serpente, pianta da casa. Ma non albero radicato, poiché le radici non si
espiantano e si impiantano certo con gran facilità. Allora il passato si
sovrapporrà al passato. L’una sull’altra, le immagini si accavalleranno e non
resterà nessuna traccia materiale di quel che siamo stati in tempi lontani. Solo
vaghi ricordi, nella maggior parte dei casi falsati, come insegnano recenti
studi sulla memoria. Allora dovremo abbandonare il cliché continentale de “Il
mio passato vive nel mio presente” e riadattarlo a “I miei ricordi vivono nella
mia testa, quest’oggi”.
Se siamo alberi, il passato è
testimoniato dalle nostre lunghe radici e materialmente nutre, giorno dopo
giorno, il nostro presente.
Se non siamo alberi, il passato
riecheggia nel nostro spirito, ma non ve ne è traccia, fuori di noi e noi siamo
sempre così sconvolgentemente diversi, di giorno in giorno e così, sconvolgentemente,
imprevedibili.
È una disgiunzione esclusiva e
io, albero che ha rinunciato a metter radici, non esisto.
Cara Mariangela,
RispondiEliminaanche per me è un pensiero ricorrente, cosa ci portiamo dietro in questi spostamenti e cambiamenti di vita (una mentalità? dei punti di riferimento culturali?) e come possiamo concepire degli appigli per un senso di identità, di esistenza come dici tu, un equivalente a livello metaforico di quelle che chiamiamo radici. E questo dipende dalla domanda se possiamo costruire un senso di identità tutto interiorizzato o, almeno, senza un corrispondente nella collocazione geografica permanente. Davvero pensi sia così labile ed illusoria questa maniera di "radicarsi" nel mondo, fatta di punti di vista, approcci, riferimenti culturali, di somiglianze anche nelle persone di cui prediligiamo la compagnia?
Se volessimo sviluppare sempre l'immagine dell'albero, è come se, ogni volta che è trapiantato, cercasse quella zona di terreno (fuori metafora, quelle frequentazioni umane, quelle attività, quegli orizzonti su cui ci si focalizza) che più gli è famigliare, che meglio può ospitare il suo adattamento e nutrire la sua capacità di esistenza. E questo suo continuo riacclimatarsi può causargli disagi e perdita di vigore, ma può contribuire anche alla sua adattabilità e resistenza.
Insomma, è davvero difficile fare un bilancio dei pro e dei contro, soprattutto a livello esistenziale, a livello di noi come persone, di come ci costituiamo ed emergiamo, di cosa andiamo costruendo per il futuro.
Grazie di queste note di poesia e di riflessione, a presto (spero!)
Barbara (Bravi)
E se non fosse necessario ancorare le radici dell'uomo a qualche luogo,ma semplicemente alle persone? Così si può essere liberi geograficamente, ma allo stesso tempo radicati in ciò che al meglio più dimostrare la "tua" esistenza...
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