martedì 1 novembre 2011

E io, resto o vado via?

Caro Roberto, mi dispiace. Ma laggiù la filosofia del call center ha distrutto ogni tensione alla progettualità. Nessuno ha il diritto di togliermi la speranza e il desiderio di costruire un futuro.
Nemmeno la mia patria.
Arrivederci, amore. Ciao.
Ciao Italia, amore mio. Ho voglia di raccontarti una storia.
Ti va di ascoltarla?
Ti va di confrontarti? Tu, Italia. Così bella. Selvaggiamente bella.
Regina delle celebrità, come cantavano gli 883, quando ero alle elementari. Eppure così lacerata.
Ti va di ascoltare?
… Non mi interessa, la tua risposta.
Io me ne frego e la racconto lo stesso, questa storia.
Ho capito che avrei dovuto lasciarti, quando sono stata costretta a scegliere tra Platone e Aristotele. Non potevo mettere entrambi in valigia. Non potevo sacrificare Kant.
Ed ecco materializzarsi nel cuore le mille immagini delle valigie di cartone, di due uomini pronti ad affrontare il gelo siberiano di Milano, di navi, enormi e ferrose, alla conquista dell’Atlantico.
Siamo un popolo di emigranti.
Emigrare è una sorte che tocca, nella storia, a tutti, prima o poi. Ma la frequenza con la quale è toccata in sorte a noi mi sconcerta.
Sono tra i cosiddetti nuovi emigranti. Non più valigie di cartone e cappotti pesanti, ma Easyjet, RyanAir, treni regionali e il terrore di sforare con i chili e pagare il sovrapprezzo.
Con dolore, con vergogna, con tormento, alla domanda dicotomica di Roberto Saviano devo rispondere: “Io non resto. Io vado via”.
Tenendo stretto nel cuore il sogno di tornare.

Sono il barbone che urla alla fermata Luxembourg della RER B. Grido. Il dolore mi consuma il fegato: troppo alcol puro, in 40 anni di vita.
Sono l’indifferenza di chi gli passa accanto, in silenzio. O magari ridendo.
Sono lo stridio della metro che cancella urla e sorrisi.
Sono il cielo terso di Parigi.
Io sono Parigi.
Benvenuti nella Ville Lumière.

Riversare una vita in un blog significa affidarla alle correnti di Internet.
Significa testarne l’efficacia.
È un tuffo nel mare liquido di Baumann. Io soffro di vertigini e le grandi altezze mi hanno sempre spaventato. Ma oggi sono andata al supermercato e ho resistito ben due ore, portando a termine una spesa razionale e, a tratti, addirittura, utile. Se sono stata capace di acquistare una scopa, scegliendola con oculatezza, posso far tutto nella vita. Anche sfidare, con arroganza prometeica, il cielo di Parigi.
E raccontare la mia, Parigi.
Ogni città è una donna e in questo momento ho a che fare con un osso duro.
Non è la materna Napoli che accoglie chicchessia nel ventre incandescente.
Non è la mia amata Roma imperatrice.
Non è neanche Londra, poliglotta manager in carriera.
Parigi è una donna sottile, nervosa. Autoritaria, non autorevole.
Vien voglia, talvolta, di sradicare la Torre Eiffel, per poi rimetterla al suo posto. Ma capovolta. La punta ancorata al terreno dello Champ de Mars e la base in aria, oscillante.
Una Torre di Pisa in ferro.
Solo allora, forse, i Parigini metterebbero le redini alla ὕβρις che li contraddistingue e si accosterebbero alla realtà sotto un’altra prospettiva.

I cugini d’Oltralpe
Qui il bislacco mondo della politica osa chiedersi cosa significhi essere francesi, oggi. Ne discutono aspramente i litterati della NormaleSup, i manager di SciencePo, i puristi dell’Accademia della Lingua, gli engagès del Cafè de Flore, persino gli ingegneri del Polytecnique. Quel matto di Sarkozy ha presentato domanda all’Unesco, perché il francese diventi Patrimonio dell’Umanità. Il francese, sì. Sebbene, tra le lingue neolatine, sia quella che ha più violato la consecutio temporum e pervertito il congiuntivo. Nonostante l’abisso tra la lingua parlata e la lingua scritta sia ogni giorno più spaventoso e, solo nei libri, davvero, solo nei libri, si incontri un passato remoto che è diventato anticaglia obsoleta. Mi sconvolgono: non conoscono il greco e pronunciano le parole latine con l’ultima sillaba accentata, perpetuando l’assassinio del povero Cicerone, ma vogliono ascrivere la lingua a Patrimonio dell’Umanità.
Mi interrogo su cosa significhi essere italiani, oggi.

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