Il
re è nudo-mi raccontava papà, stesi sul lettone, la domenica mattina. Non ne avevo
mai abbastanza delle sue storie e lo imploravo di continuare a raccontare. Raccontare.
Raccontare.
In
fondo, è un po’ il senso della mia vita.
Raccontare.
Raccontare. Raccontare.
Per
questo ho aperto un blog. Non finirò mai di ricordare a me stessa che io scrivo
per terapia. Scrivo per stare bene. Scrivo perché ho bisogno di scaricarmi.
Raccontare.
Raccontare. Raccontare.
Quante
storie ho vissuto sulla mia pelle.
Recitavo
poesie alle elementari e mamma mi suggeriva: ‘Sii espressiva’. Vivila sulla
pelle. Ma a 8 anni purtroppo non si vive l’infinito di Leopardi. Ho provato a
immaginare l’ermo colle di Torrecuso, ma non mi ha mai convinto più di tanto.
È
uno dei pochi aspetti positivi della vecchiaia. O della maturità che avanza,
per concedermi qualcosa. Perdo l’ingenuità che tanto mi contraddistingue. Perdo
la freschezza che ancora oggi, a 24 anni suonati, mi farebbe credere al mio
migliore amico che, puntando il dito al cielo, mi urla: “Guarda, un maiale che
vola”. Ma acquisto in profondità. Recupero in consapevolezza e riesco a carpire
la tridimensionalità, se non addirittura la pluri-pluridimensionalità, del
mondo intorno.
Ma
non voglio scrivere un post dal sapore della fine del Romanticismo tedesco,
quando la novità non c’è più e non resta che un miele troppo zuccherino.
Oggi
voglio scrivere di me. Senza discrezione. Vomitando nel web tutta la mia
nausea.
Si
dissiperà, nei meandri di Internet.
E
allora il bene trionferà.
E
tutti vivranno felici e contenti.
Oggi
voglio scrivere di me e di un paradigma esistenziale in crisi.
E
voglio pubblicare quello che scrivo di me, perché a qualcuno dovrò pur dirlo.
E
allora tanto vale dirlo a tutti. Conosciuti e sconosciuti.
Sarà
come non averlo detto a nessuno, in fondo.
Ma
mi sentirò meglio.
Meglio,
rispetto a sei mesi fa, quando qualcosa in me si è spezzato.
Cazzo
cazzo cazzo.
Ed
è importante sottolineare l’anafora elegante del cazzo.
Più
o meno, è stato quando ho smesso di scrivere. Non solo di pubblicare post – in fondo,
questo l’ho sempre fatto sporadicamente.
Ho
smesso di scrivere per me. Ho smesso di raccontarmi storie e di battere con
rabbia i tasti di questo computer.
Qualcosa
si è spezzato e il delicato soffuso etereo equilibrio di un sentimento è andato
in mille pezzi.
Sì,
lo dico proprio così –come una donnina di Beautiful, una di quelle piccole
sciocchine che sembra vivano solo per l’effimero (letteralmente, effimero, nelle storie di Beautiful)
compagno.
Io
non sono per l’accanimento terapeutico. Io non sono per infliggere a chi amo
una morte lenta e dolorosa. Io sono per l’eutanasia e per la donazione degli
organi. Ho sempre avuto le idee chiare in proposito.
Peccato
che capovolgere le idee nella realtà sia un’ardua impresa e peccato che non si
scherzi con i sentimenti. Va bene, okay. Lo ammetto. Il mio cuore è molto più
tosto del mio cervello.
Francamente,
me ne faccio una colpa. Ne farei una colpa a chiunque. Ma il problema è ben più
grave!
Non
si tratta soltanto di tre anni della mia vita e della bambina che in me è così
attiva e così ingenuamente idealista.
La
questione è di principio.
Il
problema è il paradigma da adottare d’ora in poi. Perché è giusto soffrire, è
sano soffrire, ma una lezione deve uscir da tutto. Anche dalla mediocrità. Ma alla domanda cui prodest io voglio, io devo rispondere.
Ho
sempre creduto nell’homo artifex destini
sui. Litigavo al liceo con la mia amica, perché ero fermamente convinta che
chiunque avrebbe potuto cambiare il corso della propria vita.
Intravedevo
il miracolo dell’uomo, in un’estasi misticamente adolescenziale.
L’uomo
è una macchina portentosa, dotata di uno spirito. L’uomo può tutto. Se volessi,
domani potrei essere a Rio de Janeiro o iscritta a matematica. Tutto in
direzione della felicità. Per questo, bambina quattordicenne, ho sempre sognato
un principe che mi dicesse: “Prendiamo il primo autobus che passa e vediamo
dove andiamo”. E mostriamoci capaci di maneggiare il destino e di indirizzare
la materia nella direzione che scegliamo.
Il
fattuale, il materiale, per l’appunto, non è una limitazione della libertà dell’uomo.
Anzi. È un utensile che bisogna imparare a usare. Riesce addirittura a potenziare la libertà. Solo l’uomo può.
Solo
l’uomo è questo miracolo. Il miracolo della spirito che poi è il miracolo della
libertà.
È
il padrone di se stesso.
Io
sono padrona di me stessa.
E
se voglio lasciare Medicina e iscrivermi a Filosofia perché sono matta, perché
sono cretina, perché sono un’idealista, io lo faccio e basta. E cazzo.
Poi
però con la maturità è subentrata la saggezza dell’esperienza e ho scoperto
quello che mi urlava la mia amica del liceo, nelle nostre litigate furibonde. L’uomo
non è solo libertà.
Non
è vero. Non ci credo.
Non
ci voglio credere.
Non
è giusto.
E
allora cosa sarebbe l’uomo?
Il
prodotto della combinazione di patrimonio genetico, condizioni ambientali e una
percentuale di casualità, come mi insegna il buon vecchio Peirce?
E
allora, io? L’illusione che avevo di poter davvero cambiare la mia vita, che
fine fa? Il fatto che la abbia davvero cambiata e a un certo punto abbia fatto retromarcia,
sgommando abbandonando un’autostrada per una strada provinciale del profondo
Sud, come lo consideriamo? E allora se davvero non sono che il risultato di tre
variabili, anche questa mia profonda fiducia nella libertà lo è?
A
un certo punto, qualcosa si spezza. A un certo punto, l’ingranaggio si inceppa
e questo positivismo esistenziale trova il suo contro esempio. Purtroppo però l’amore
non capisce neanche la logica classica aristotelica, a due valori di verità. L'amore continua per la sua strada, orgoglioso e cattivo, come
solo l’amore può essere. Continua, continua, continua. È implacabile, l’amore. È
ottuso, l’amore. È un po’ scemo, se proprio la devo dir tutta.
L’amore
capisce solo il dolore. Solo le ossa rotte. Solo la tristezza che scende in
fondo al cuore.
Solo
alla sofferenza l’amore non sa trovare una risposta. E solo lì si ferma. Masochisticamente,
la vive tutta, fino in fondo. E arriva il giorno in cui si guarda allo specchio
e si passa una mano sul viso. Lenta. Segue il contorno labbra, passa il dito
sul nasino e tiepidamente osserva l’implacabile condanna. È scarna, la mano che
ripete i gesti automatici di tutti i romanzetti rosa della Via Lattea. È scarnita.
È stata prosciugata. Il re è nudo.
E
finalmente decido di vedere. La violenza di questi ultimi mesi mi ha strappato
le solite, appetitose fette di prosciutto che ho sugli occhi. E ha messo in
crisi un paradigma esistenziale.
Purtroppo
però una idealista resta una idealista. Può tacere per mesi, trasformarsi nella
donnina di Beautiful, rinunciare per un po’ all’idea che impregna la sua vita. E,
così, sentirsi espropriata, della sua vita. Ma un’idea resta un’idea.
E
io, cazzo, voglio ritornare a essere perdutamente innamorata del mio
meraviglioso homo artifex.
Il
mio re è nudo e finalmente riesco a vederlo.
Non
ne ho più paura.
Ohhh...
RispondiElimina