sabato 6 aprile 2013

Il mio re è nudo



Il re è nudo-mi raccontava papà, stesi sul lettone, la domenica mattina. Non ne avevo mai abbastanza delle sue storie e lo imploravo di continuare a raccontare. Raccontare. Raccontare.
In fondo, è un po’ il senso della mia vita.
Raccontare. Raccontare. Raccontare.
Per questo ho aperto un blog. Non finirò mai di ricordare a me stessa che io scrivo per terapia. Scrivo per stare bene. Scrivo perché ho bisogno di scaricarmi.
Raccontare. Raccontare. Raccontare.
Quante storie ho vissuto sulla mia pelle.
Recitavo poesie alle elementari e mamma mi suggeriva: ‘Sii espressiva’. Vivila sulla pelle. Ma a 8 anni purtroppo non si vive l’infinito di Leopardi. Ho provato a immaginare l’ermo colle di Torrecuso, ma non mi ha mai convinto più di tanto.
È uno dei pochi aspetti positivi della vecchiaia. O della maturità che avanza, per concedermi qualcosa. Perdo l’ingenuità che tanto mi contraddistingue. Perdo la freschezza che ancora oggi, a 24 anni suonati, mi farebbe credere al mio migliore amico che, puntando il dito al cielo, mi urla: “Guarda, un maiale che vola”. Ma acquisto in profondità. Recupero in consapevolezza e riesco a carpire la tridimensionalità, se non addirittura la pluri-pluridimensionalità, del mondo intorno.
Ma non voglio scrivere un post dal sapore della fine del Romanticismo tedesco, quando la novità non c’è più e non resta che un miele troppo zuccherino.
Oggi voglio scrivere di me. Senza discrezione. Vomitando nel web tutta la mia nausea.
Si dissiperà, nei meandri di Internet.
E allora il bene trionferà.
E tutti vivranno felici e contenti.
Oggi voglio scrivere di me e di un paradigma esistenziale in crisi.
E voglio pubblicare quello che scrivo di me, perché a qualcuno dovrò pur dirlo.
E allora tanto vale dirlo a tutti. Conosciuti e sconosciuti.
Sarà come non averlo detto a nessuno, in fondo.
Ma mi sentirò meglio.
Meglio, rispetto a sei mesi fa, quando qualcosa in me si è spezzato.
Cazzo cazzo cazzo.
Ed è importante sottolineare l’anafora elegante del cazzo.
Più o meno, è stato quando ho smesso di scrivere. Non solo di pubblicare post – in fondo, questo l’ho sempre fatto sporadicamente.
Ho smesso di scrivere per me. Ho smesso di raccontarmi storie e di battere con rabbia i tasti di questo computer.
Qualcosa si è spezzato e il delicato soffuso etereo equilibrio di un sentimento è andato in mille pezzi.
Sì, lo dico proprio così –come una donnina di Beautiful, una di quelle piccole sciocchine che sembra vivano solo per l’effimero (letteralmente, effimero, nelle storie di Beautiful) compagno.
Io non sono per l’accanimento terapeutico. Io non sono per infliggere a chi amo una morte lenta e dolorosa. Io sono per l’eutanasia e per la donazione degli organi. Ho sempre avuto le idee chiare in proposito.
Peccato che capovolgere le idee nella realtà sia un’ardua impresa e peccato che non si scherzi con i sentimenti. Va bene, okay. Lo ammetto. Il mio cuore è molto più tosto del mio cervello.
Francamente, me ne faccio una colpa. Ne farei una colpa a chiunque. Ma il problema è ben più grave!
Non si tratta soltanto di tre anni della mia vita e della bambina che in me è così attiva e così ingenuamente idealista.
La questione è di principio.
Il problema è il paradigma da adottare d’ora in poi. Perché è giusto soffrire, è sano soffrire, ma una lezione deve uscir da tutto. Anche dalla mediocrità. Ma alla domanda cui prodest io voglio, io devo rispondere.
Ho sempre creduto nell’homo artifex destini sui. Litigavo al liceo con la mia amica, perché ero fermamente convinta che chiunque avrebbe potuto cambiare il corso della propria vita.
Intravedevo il miracolo dell’uomo, in un’estasi misticamente adolescenziale.
L’uomo è una macchina portentosa, dotata di uno spirito. L’uomo può tutto. Se volessi, domani potrei essere a Rio de Janeiro o iscritta a matematica. Tutto in direzione della felicità. Per questo, bambina quattordicenne, ho sempre sognato un principe che mi dicesse: “Prendiamo il primo autobus che passa e vediamo dove andiamo”. E mostriamoci capaci di maneggiare il destino e di indirizzare la materia nella direzione che scegliamo.
Il fattuale, il materiale, per l’appunto, non è una limitazione della libertà dell’uomo. Anzi. È un utensile che bisogna imparare a usare. Riesce addirittura a potenziare la libertà. Solo l’uomo può.
Solo l’uomo è questo miracolo. Il miracolo della spirito che poi è il miracolo della libertà.
È il padrone di se stesso.
Io sono padrona di me stessa.
E se voglio lasciare Medicina e iscrivermi a Filosofia perché sono matta, perché sono cretina, perché sono un’idealista, io lo faccio e basta. E cazzo.
Poi però con la maturità è subentrata la saggezza dell’esperienza e ho scoperto quello che mi urlava la mia amica del liceo, nelle nostre litigate furibonde. L’uomo non è solo libertà.
Non è vero. Non ci credo.
Non ci voglio credere.
Non è giusto.
E allora cosa sarebbe l’uomo?
Il prodotto della combinazione di patrimonio genetico, condizioni ambientali e una percentuale di casualità, come mi insegna il buon vecchio Peirce?
E allora, io? L’illusione che avevo di poter davvero cambiare la mia vita, che fine fa? Il fatto che la abbia davvero cambiata e a un certo punto abbia fatto retromarcia, sgommando abbandonando un’autostrada per una strada provinciale del profondo Sud, come lo consideriamo? E allora se davvero non sono che il risultato di tre variabili, anche questa mia profonda fiducia nella libertà lo è?
A un certo punto, qualcosa si spezza. A un certo punto, l’ingranaggio si inceppa e questo positivismo esistenziale trova il suo contro esempio. Purtroppo però l’amore non capisce neanche la logica classica aristotelica, a due valori di verità. L'amore continua per la sua strada, orgoglioso e cattivo, come solo l’amore può essere. Continua, continua, continua. È implacabile, l’amore. È ottuso, l’amore. È un po’ scemo, se proprio la devo dir tutta.
L’amore capisce solo il dolore. Solo le ossa rotte. Solo la tristezza che scende in fondo al cuore.
Solo alla sofferenza l’amore non sa trovare una risposta. E solo lì si ferma. Masochisticamente, la vive tutta, fino in fondo. E arriva il giorno in cui si guarda allo specchio e si passa una mano sul viso. Lenta. Segue il contorno labbra, passa il dito sul nasino e tiepidamente osserva l’implacabile condanna. È scarna, la mano che ripete i gesti automatici di tutti i romanzetti rosa della Via Lattea. È scarnita. È stata prosciugata. Il re è nudo.
E finalmente decido di vedere. La violenza di questi ultimi mesi mi ha strappato le solite, appetitose fette di prosciutto che ho sugli occhi. E ha messo in crisi un paradigma esistenziale.
Purtroppo però una idealista resta una idealista. Può tacere per mesi, trasformarsi nella donnina di Beautiful, rinunciare per un po’ all’idea che impregna la sua vita. E, così, sentirsi espropriata, della sua vita. Ma un’idea resta un’idea.
E io, cazzo, voglio ritornare a essere perdutamente innamorata del mio meraviglioso homo artifex.
Il mio re è nudo e finalmente riesco a vederlo.
Non ne ho più paura.

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